ARCORE: IL FANTASMA DEL MONASTERO DI SANT’APOLLINARE
di Tonino Sala
Proseguiamo, nel descrivere un altro importante luogo di Arcore, infarcendo il racconto storico, sempre rigoroso, che ci fa Tonino Sala, con un tocco di magico e esoterico, fatto di presenze, che trovano il loro esistere da quella sintesi tra la vulgata popolare e la fantasia dell’autore. Il luogo è il Sant’Apollinare, noto in tempi antichi, per la presenza del monastero benedettino e legato, all’importante reperto documentale della così detta “Donazione di Umfredo”, dove nell’anno 1100 compare per la prima volta il nome della nostra cittadina “Arculi” . Un secondo episodio, condensa fatti registrati dal parroco, che resse la cura di Arcore all’inizio del Settecento, svelando tra l’altro una condizione sociale di quella “infanzia abbandonata”, poco nota. Ancora il Sant’Apollinare protagonista, con la presenza di quell’osteria, retaggio dei tempi antichi, in cui il luogo segnava un punto di sosta per i viaggiatori che dall’epoca romana e forse ancora prima, avevano percorso l’importante tracciato viario che lambiva la località.
1411 – Dopo oltre un mezzo millennio il monastero arcorese chiuse l’attività stressato da pestilenze, guerre, violazioni e conflitti confinari, ma rimase nella memoria e nei racconti tramandati da una generazione all’altra sul come era il luogo, rifugio per cercatori di infinito o carcere di negletti figli sacrificati da genealogie maggiorasche, dove il tempo seminava lo scandire delle stagioni, ricco di memorie e di favole, e a queste oggi, complice un semplice fatto riesumato dai sepolcri del tempo, si trova il motivo di un’occhiata al come era, sia nel territorio che nel vivere comune alla società del tempo.
Il commento-racconto inizia con un fatto che pur nella sua tragica semplicità rivela alcune tracce sul modo di gestire i bambini abbandonati e l’esistenza di un’osteria al Sant’Apollinare, notizia che mi era del tutto sconosciuta.
…“Mille settecento trenta cinque
alli sei di Maggio
Giò Antonio Gioachino Figlio del V.le Ospedale Maggiore di Milano mentre era allattato dà una Parochiana della Prepositura di Missaglia, e dà essa era portato a Milano morì tra le braccia della med.a nei termini di questa mia Parochiale Giurisdizione, dicono, in uicinanza dell’oratorio di S. Appollinare, e ne fu portato il cadauere all’Osteria di questo luogo, ed ivi abbandonato à discrezione, e da me fu mandato a leuare dà un sacerdote, e fu sepolto in questa Parochiale gratis con licenza in iscritto del Rev.do P. Carlo Rossi can.co Coadiutore della sud. Prepositura.
P. Fran.co Civalli Cur.”…
…Giò Antonio Gioachino
La dicitura “ …figlio del V.le Ospedale Maggiore…” e la mancanza di un cognome qualifica la sua condizione di “abbandonato”.
…Figlio del V.le Ospedale Maggiore di Milano
1735 – Le istituzioni pubbliche per l’assistenza materno-infantile per orfani e abbandonati.
…
Il torno (o ruota) offriva ai genitori un mezzo più sicuro di consegna dei neonati, in alternativa all’abbandono in luogo pubblico.
L’attività assistenziale promossa dall’Ospedale Maggiore in favore dei minori si articolava in un complesso sistema che prevedeva ricoveri, accettazioni temporanee ed “elemosine” per il baliatico.
Anche le donne accolte per il parto – che, se povere, erano poi tenute a restare come balie sedentarie – potevano lasciare il loro neonato fra gli esposti al momento della dimissione, ma solo se il padre, legittimo o naturale, non aveva i mezzi per mantenerlo oppure se rifondeva all’Ospedale le spese sostenute.
Esisteva poi la possibilità di un ricovero a termine, per il solo periodo del baliatico. Questa forma di beneficenza era concessa sia ai figli lattanti delle inferme degenti nelle corsie della Ca’ Granda, sia ad alcune categorie di neonati poveri legittimi, figli di madri “impotenti ad allattare”, i gemelli, gli orfani di madre. Dagli anni Settanta del Seicento fu prevista la concessione di un’elemosina in favore delle famiglie povere escluse dal baliatico gratuito.
Dopo l’ingresso, i bambini, se lattanti, venivano affidati ad una balia interna, e poi non appena possibile ad una balia esterna (“forese”), per essere infine consegnati, ormai svezzati, ad una nutrice. Inizialmente tali affidamenti all’esterno furono considerati temporanei e l’età della restituzione all’Ospedale fu indicata intorno ai quattro anni (1508). In seguito fu innalzata a sei anni (1558) e si previde anche la possibilità, per le famiglie affidatarie, di trattenere i bambini come figli propri oppure come servi, in seguito alla stipula di un regolare contratto. Infine (1594) il rientro fu fissato a sette anni. Dopo la riconsegna, per gli assistiti aveva inizio un periodo riservato all’istruzione di base, scolastica e religiosa, impartita da sacerdoti, e all’addestramento professionale, impartito da maestre interne – per le femmine – e da maestri a contratto, come tessitori, calzolai, calzettai – per i maschi. Al termine, i maschi erano assegnati alle botteghe cittadine, mentre le femmine, nell’attesa del matrimonio o della monacazione, restavano recluse, impegnate nelle attività produttive (lavorazioni pregiate, fabbricazione di nastri, ricamo e cucito) e nei servizi ospedalieri – attività grazie alle quali aumentavano le doti elargite dall’Ospedale. In alternativa le “colombe”, dopo i dodici anni, potevano essere mandate, ma non senza esitazioni, ripensamenti e resistenze, anche da parte delle stesse assistite, a servizio in case private “honeste et da bene” di nobili e di artigiani, sposati e residenti in città, che, in cambio, si impegnavano a dotarle. Dalla metà del XVII secolo, in concomitanza con la decadenza dell’economia urbana e con gravi difficoltà gestionali, l’Ospedale Maggiore cambiò strategia e deliberò di lasciare gli esposti sani – che non fossero stati reclamati dai loro genitori – presso le famiglie contadine per tutta la durata dell’assistenza: gli affidatari ricevevano in cambio un salario decrescente fino al settimo anno d’età, e il corredo fino all’abdicazione. L’assistenza e la tutela, per coloro che non fossero inabili, cessavano con il compimento dei quindici anni, ma le femmine avevano diritto a ricevere anche una dote di 100 lire (oltre al “panno per una sottana”) in caso di matrimonio o, se nubili, a tornare “in qualunque età” nell’Ospedale Maggiore. Tale organizzazione restò immutata nei secoli successivi, fino a che nel 1780 il “Quarto delle balie” fu chiuso e l’intera famiglia degli esposti fu trasferita nella nuova sede di Santa Caterina alla ruota.
Anche nei registri del Sant’Eustorgio, figurano casi di bambini abbandonati sulla porta della chiesa, battezzati poi inviati alle pubbliche istituzioni;
1641 adì 21 luglio – Dom.co f. N.N. ritrovato sopra la porta della chiesa senza policino di batesimo, è stato batezato da me P. Giosifo Berta Curato d’Arcoro sub Cond.ne il compadre fu Dom.co barzago, et dopo p. eser incerto il padre et la madre si è inviato all’hospitale
e casi di lattanti deceduti mentre erano a balia presso donne arcoresi.
Mille settecento trent’uno alli ventiquatro di marzo – Angela figlia di Andrea … e di Marina … iugali abitanti in Milano in età di giorni venti passò da questa all’altra vita, e lo stesso giorno fu sepolta in questa Parochiale di Arcore con l’assistenza di me vicecurato Prete Gio=Antonio Vismara; era stata data a lattare a Margaritta Crippa moglia di Giouanni Crippa.
…mentre era allattato dà una Parochiana
… i bambini, se lattanti, venivano affidati ad una balia interna, e poi, non appena possibile, ad una balia esterna (“forese”), per essere infine consegnati, ormai svezzati …
Di questa “Balia” non viene reso noto né il nome né il luogo di provenienza.
…della Prepositura di Missaglia
Il testo parla di “Prepositura” … si potrebbe quindi intendere tanto che la “parochiana” provenisse da Missaglia o da qualsiasi altro luogo che vi appartenesse come Pieve. I paesi che compongono la Prepositura sono parecchi (Ignazio Cantù, nel suo “Le vicende della Brianza” afferma che siano, addirittura 31), alcuni prossimi e confinanti con quella di Vimercate, mentre altri relativamente lontani. Si potrebbe argomentare che trovandosi a passare per Arcore, il paese d’origine fosse proprio uno di quelli sul percorso della strada per Lecco, poco oltre Usmate-Velate, cioè Lomagna, Osnago o Cernusco.
…e da essa era portato a Milano morì tra le braccia della med.a
Non è indicata l’età del piccolo. Cosa sia effettivamente successo, al di là della semplice nota “…morì tra le braccia…” non è dato sapere, è comunque abbastanza strano che sulla via della riconsegna succeda un accidente così luttuoso.
La sintesi del fatto potrebbe essere tradotta in una breve cronaca: la balia è alla conclusione del suo mandato, oppure, è finita la lattazione alla balia, mentre, forse, non è ancora terminato per il poppante il tempo dell’allattamento al seno, ma questo non è più possibile, quindi si deve procedere ad altro; la balia, giustamente si preoccupa di rendere il lattante all’Ospedale Maggiore e per questo si pone in viaggio. Il mezzo di trasporto potrebbe essere un calesse; un malessere improvviso, o, forse, già la costatazione di morte (è noto il fenomeno della cosiddetta “Morte Bianca”, SIDS, nei neonati), convince la Balia a fermarsi.
Naturalmente dall’annotazione nei Registri parrocchiali non è possibile ricostruire tutta la vicenda anche se, forse, al tempo si ebbero tutte le note utili a spiegare i perché e i percome. Non consta se al tempo, in zona, vi fossero epidemie o altro (traumi da incidenti), tali da accettarne così supinamente la conclusione. Chiaramente il Curato si limita a quanto di sua competenza, se vi fu o meno una costatazione di morte da parte di sanitari o una verifica dell’autorità civile non è noto, certo che la frase “abbandonato a discrezione” lascia intendere che vi sia stata un po’ di trascuratezza nel gestione del caso.
…nei termini di questa mia Parochiale Giurisdizione in uicinanza dell’oratorio di S. Appollinare
Sant’Apollinare. In altri racconti è già stato detto dell’origine del luogo e della sua denominazione; la casualità dell’accaduto in sua prossimità, è occasione, più sotto, per un breve rammento:
…e ne fu portato il cadauere all’Osteria di questo luogo
Che ci fosse un’Osteria, risulta una novità, anche se in origine, lungo la via per Lecco, essendo ivi posto un termine di “contrassegno miliario”, si ritiene esistesse anche una stazione di posta (mansio o mutatio) del “cursus” romano. Non mi pare di ricordare che negli affitti delle proprietà delle Monache di Sant’Apollinare si parli qualche volta di Osterie, naturalmente senza negare che ci possa essere stata, al tempo di cui si parla, qualche iniziativa privata nell’ambito degli edifici dell’ex Monastero. Che poi potesse essere, sull’uso del tempo, anche con alloggio e stallazzo, si può solo supporre.
Sembrerebbe di capire che quando il trasporto si ferma il decesso sia già avvenuto. Quello che stupisce, proiettato nei tempi attuali, è l’abbandono, forse concordato, con affido alla pietà di chi si poteva assumere l’onere di concludere la vicenda.
…ed ivi abbandonato à discrezione, e da me fu mandato a leuare
Qui è il curato che parla e sottilmente insinua il malgoverno del fatto; la conclusione poi è chiara, manda un coadiutore, probabilmente accompagnato dal sacrestano che farà da portatore a braccia, oppure sul calesse di cui certamente la parrocchia dispone; in fine, la nota della sepoltura “gratis” rivela che tra gli incerti pecuniari “di cotta e stola”, come dice Porta nelle sue satire poetiche, rientrano anche i funerali.
Una semplice noticina sull’oggi richiamerebbe il dovere, per chi crede, di contribuire a mantenere Chiesa e Pastore laddove, invece, le sacre cerimonie, pur richieste, sono ritenute un diritto il cui mantenimento sia dovuto; troppo spesso l’offerta è solo simbolica perfino insufficiente a coprire il consumo di energia … a sostenere l’istituzione pensino altri.
Il momento storico
Dal 1714, a seguito della “Pace di Rastatt” e per il trattato di Baden, il Ducato di Milano appartiene all’Austria, però in questo periodo (dal 6 maggio 1733) il Ducato è occupato dalle truppe franco-piemontesi, essendo ancora in atto, ma in via di risoluzione il conflitto fra Austria e Francia-Piemonte, che aveva trovato innesco dalla guerra anglo-spagnola risolta poi nel trattato di Siviglia. Nel periodo di occupazione Carlo Emanuele III si è autoproclamato “Re di Lombardia”. Dopo l’armistizio tra Francia e Austria gli austriaci rientrano a Milano, l’ambizione savoiarda è smorzata, l’anno dopo, il trattato di Vienna regolerà la ripresa ufficiale dell’occupazione.
Papa, dal 1730, è Clemente XII, al secolo Lorenzo Corsini.
Arcivescovo di Milano, dal 1712, è Benedetto Erba Odescalchi.
Arcore appartiene da sempre alla Pieve di Vimercate che è ancora feudo dei Secco-Borella; fra breve, per matrimonio dell’ultima discendente, diventerà feudo dei Trotti.
Prevosto della Pieve è, dal 1703, Prospero Francesco Mogni.
Il Curato in carica è, dal 1731, Don Francesco Civalli, grazie al quale sarà promossa l’iniziativa per la costruzione della nuova Chiesa della quale egli vedrà solo l’inizio degli scavi per le fondazioni delle mura perimetrali (1760).
La gestione comunitaria arcorese fa capo ai cosiddetti “magnati o estimati” (nobili e possidenti) che finora sono riusciti, grazie al malgoverno spagnolo a scaricare sulla plebe il carico fiscale. Dall’inizio della dominazione austriaca si è avviata la rilevazione totale dei beni del Ducato, per una perequazione della contribuzione fiscale, alla quale nessuno potrà più sfuggire nemmeno le proprietà ecclesiastiche e religiose; l’applicazione si è però interrotta per la guerra di cui si è già detto, sarà ripresa, aggiornata, completata e poi pubblicata nel 1760.
Il complesso dei “Beni” del paese è però già ben noto; infatti, la rilevazione catastale, per il paese di Arcore e Cascina del Bruno compreso Bernate, considerato però come Comune autonomo e rilevato a parte, è stata completata nel 1721 e ha ben evidenziato possessori e affittuari che costituiscono il lungo elenco che trascrive e ripartisce il territorio dell’intero paese. I “Beni” che costituiscono in questo tempo il capitale dei possessi del Sant’Apollinare ammontano a 16 parcelle, edifici compresi, variamente disposte, per la maggior parte collocate nei dintorni dell’ex Monastero; un totale residuo, rispetto all’originale già ridotto al tempo, che si aggira ancora attorno alle 450 pertiche.
Il luogo
La storia del Sant’Apollinare è antica. La certezza della sua esistenza è testimoniata da un documento ufficiale, sul quale un notaio redige la modesta donazione di una pertica di terreno (vera e propria “enclave” nella proprietà di un altro, detta Campogrande) fatta da un arcorese (de loco Arculi), noto come “Donazione di Umfredo”, documento datato 1100; ma il chissà da quanto tempo prima esisteva.
Come fu che il campetto di una pertica finì dentro il “Campogrande”? Cercarne la motivazione e l’origine significa forse, scomodare, il diritto di successione Romano, Longobardo e Franco; a parte che potrebbe trattarsi di un compenso offerto dal proprietario del “Campogrande” che voleva comunque conservarsi il dominio; o un antico possesso attorno al quale si venne poi costituendo il nuovo appezzamento; e come fossero distribuite le proprietà attorno a quel periodo è ancora una ricerca da fare.
Per la verità non sappiamo molto e il solo nome del campo, sia pure conservato fino all’epoca della rilevazione austriaca, è insufficiente a determinarne con certezza la collocazione della minuscola sezione. Quello che è certo è che del terreno donato da Umfredo nelle residue proprietà del Monastero riportate nel 1721 non c’è traccia, che sia entrato in negozi di scambi, cessioni, o vendita non si può che supporre …
Più sopra si è detto della rilevazione catastale del territorio arcorese (1721, mappa originale di campagna – 1722, trascrizione a disegno acquarellato su 19 fogli); questa (foglio IX) consente di vedere ben rappresentata la consistenza del Monastero-Cascina, posto a lato della “Strada per Lecco” sulla sponda ovest dell’alveo della Molgorana (che non risulta tracciata) lì attraversata da un ponticello che introduce alla Cascina proseguendo e incrociando poi il sentiero di campagna tra il san Gregorio e Bernate.
Il ricercatore Virginio Riva nel suo “Le origini della Brianza” identifica questa strada col nome di “Via Ulteria” che partendo da Genova arrivava, diramandosi, fino allo Spluga e al Maloja. La ricostruzione del percorso, in base ai toponimi derivati dal latino e degradati nel volgare dialettale dei luoghi di transito, occupa un paio di capitoli del libro e anche se non è totalmente condivisa dagli specialisti del ramo ne dà una versione attendibile.
Quanto alla storia si può tracciarne una sintesi, partendo dall’origine di “posto di fermata e cambio” nel sistema viario romano e, forse prima ancora delle civiltà che lo precedettero.
Il rinvenimento della lapide col nome di Julia Drusilla che si ritiene fosse collocata in luogo a memoria e venerazione (Caligola l’aveva innalzata a livello di Dea con i diritti a ciò connessi) in un primitivo delubro ridotto poi all’avvento del Cristianesimo in modesta cappella.
La fine dell’Impero, invasioni, distruzioni carestie e rarefazione degli abitanti conducono “all’inselvamento”: la natura riprende possesso, ricresce la foresta e a questo contribuiscono i Longobardi arrivati nel 568, dalla Pannonia. A Teodolinda loro regina, alla quale quasi tutti i paesi della Brianza attribuiscono qualche fondazione, si deve, secondo leggende e tradizioni, il restauro della cappellina. Dopo poco più di duecento anni i Franchi assoggettano i Longobardi, instaurano il loro sistema di governo, riprendendo in parte la conversione in coltivo delle foreste. Mediante donazioni modali parecchie comunità religiose vengono delegate alle bonifiche.
Nei nostri territori i Benedettini riportano l’agricoltura ed erigono l’Oratorio-Monastero partendo dall’antichissima cappellina; il monastero diventa poi femminile. Passano i secoli, gelosie e conflitti fra paesi, guerre per la conquista del Ducato, pestilenze e carestie riducono le presenze monastiche e ne generano l’impossibilità di gestione. Il monastero viene chiuso, le ultime monache e tutti i suoi beni sono aggregati al Sant’Apollinare di Milano (1411). La consistenza dei possessi originali non è nota anche se la concomitanza del formarsi nel confinante Bernate dell’egemonia totalitaria di un ramo dei d’Adda potrebbe far supporre che le terre del Monastero tracimassero oltre i confini del territorio arcorese.
Il proprietario
Siamo nel 1735. Proprietario, dopo oltre trecento anni dalla chiusura e dall’aggregazione dei suoi Beni è ancora il Sant’Apollinare di Milano; sono ancora queste Monache che si avvalgono di rappresentanti nella gestione diretta e negli affitti; ci penserà Napoleone a chiudere il convento e ad espellerle anche dalle proprietà arcoresi, in parte frazionate e in parte messe all’asta consentendo agli ottimati milanesi di rimpolpare le loro proprietà fondiarie nel nostro territorio.
I Beni dell’altro Monastero del San Martino, ormai già da quasi 300 anni, hanno subito con la cessione a livello perpetuo, una pseudo-usurpazione, dai Simonetta i quali nonostante molte dispersioni, conservano ancora sul territorio arcorese qualche scampolo di proprietà. Al San Martino ai Simonetta sono subentrati i Giulini (1713) che ne stanno ricomponendo la consistenza originale.
Al tempo l’organizzazione del Monastero prevedeva che fossero i Monaci (o le Monache) a gestire in autonomia i beni dotali, ma, evidentemente, era tutto proporzionato all’effettiva estensione di questi, pertanto, erano necessari gli aiuti di personale, braccianti e fittavoli, soggetto al Monastero, in parte risiedente e in parte esterno. Nel caso del Sant’Apollinare, risultava che a spartirsi le cure delle originali forse 500 pertiche di terreni, almeno una decina di contadini vivessero, parte direttamente sulla terra in capanni di mattoni crudi seccati al sole e tetti di frasche, e parte nella cascina del Monastero stesso o in cascine confinanti o parzialmente aggregate (si ritiene che l’insediamento originale della “Corte Grande”, l’impostazione della “Cascina San Gregorio”, quella della ex “Corte Morganti”, della Malpensata e parte della stessa Bernate, prossimi o confinanti coi beni del monastero, datino proprio da quei tempi; la stessa storia del “Castello”, fatta risalire al tempo delle incursioni degli “Ungari” potrebbe essere stata contemporanea).
Così stavano le cose evolute pian piano fin dalla ripresa delle colture dopo le donazioni di Longobardi e Franchi a costituirne la base e, con monaci e monache spesso provenienti dalle classi subalterne delle famiglie nobili, anche il flusso di conduttori e braccianti si rinnovava nel tempo … e ogni famiglia portava un po’ del suo retaggio dalle provenienze originarie …
Che vi fossero leggende derivate da antiche tradizioni, risalenti ai tempi nei quali il monastero era in piena attività, è cosa risaputa e ricordata dagli abitatori della cascina che nelle veglie invernali (filot) o nei raduni per quei lavori in comune, che si svolgevano sotto i porticati, si scambiavano da un clan all’altro le proprie e quelle del luogo.
Gli abitanti
Alcuni documenti custoditi all’Archivio di Stato di Milano evidenziano che, dopo l’abbandono del Monastero, vi furono di seguito altri affittuari-abitanti e iniziarono subito i tentativi di erosione delle proprietà; già nel 1438 si parla di processi intentati dalle monache per difendere le loro proprietà, difesa che continuò tra alti e bassi anche per altri numerosi tentativi che si protrassero fino alla spoliazione napoleonica.
Nel tempo gli affittuari si succedono ma gli abitanti della cascina non sono i titolari dell’affittanza, ma, forse, semplici braccianti o sub-affittavoli.
Dai documenti di cui si è detto sopra si rilevano nomi di persone che potrebbero anche essere stati residenti nella Cascina-Monastero: 1438 – Antonio Calastrino; 1478 – Ambrogio Cambiago; 1496 – Pietro e Antonio Casati; 1551 – Luigi Sala e Andrea Zappa.
I primi nomi certi di residenti li troviamo però negli “Stati d’Anime” (1574 e 1588): il Sant’Apollinare risulta abitato da parrocchiani arcoresi: due famiglie (Brambilla e Mariani) nel 1574; una sola, Brambilla nel 1588). Il titolare dell’affittanza è un Casati. I Casati in quei tempi erano proprietari di numerose case e terreni.
Lo “Stato d’anime”, rilevato dal Curato Civalli un paio d’anni dopo il fatto narrato (1737), elenca gli abitanti, non si sa se affittuari della cascina o semplici braccianti dipendenti degli effettivi affittuari, essi compongono quattro nuclei di Vimercati originati da un unico capostipite; un insieme di 17 persone che vivono come un’unica famiglia patriarcale.
Il Capofamiglia è Antonio, sposato con Elisabetta Sala, la coppia ha una sessantina d’anni;
poi Francesca Teruzza vedova di un fratello del Capofamiglia, anni 45, con due figli: Ambrogio 25 anni, e Gioanni 20; seguono i fratelli del Capofamiglia: Giuseppe, 45 anni, sposato con Antonia Oggiona, 40 anni; hanno 5 figli: Orsola 17 anni, Costanza 11, Giovanna 11, Antonio 10, Giacomo 9; e Francesco, 40 anni, sposato con Maria Sala; hanno 3 figli: Domenico 15 anni, Gioanni 13, Batta 10.
Quale di questi poi sia il gestore dell’Osteria o se vi sia una o più altre persone non censite non si sa.
I Racconti
Fra i racconti elaborati in proprio o portati dai “Contastorie”, quello che teneva banco e che da una volta all’altra si arricchiva di rimandi e particolari fantastici iniziava con la storica “Donazione di Umfredo”.
Si raccontava che questo arcorese, che possedeva un piccolo campo totalmente all’interno dell’appezzamento di un altro possidente, per accedere al quale in virtù di una servitù di passaggio ne calpestava uno striminzito sentiero …nei primi caldi di giugno, poco dietro il monastero, dopo aver lavorato con altri a ricuperare e accatastare la legna che il torrente (Molgorana), ingrossato, tracimando a seguito dei forti piovaschi (fin San Giuan pisa i ran), aveva abbandonato sulle sponde, sentendosi avvolgere da una stanchezza strana che gli pesava sulle membra, si stese sull’erba, all’ombra del boschetto di riviera che contornava i bordi dell’alveo, per un breve riposo, addormentandosi …
Trascorso qualche tempo credette di levarsi e incamminarsi per riprendere il lavoro, ma volgendosi, nel guardarsi intorno, come in un sogno, al limite fra visione fantastica e realtà virtuale, in una specie di sdoppiamento, si vide ancora steso sull’erba addormentato. Mentre rifletteva convinto di avere una allucinazione, una coppia di monache velate, nell’abito proprio benedettino, sbucate da dietro l’abside della chiesetta, venivano verso il dormiente; nel contro luce cercò di vedere meglio le figure che, venendogli incontro, avevano il volto parzialmente celato: il viso bianco-grigiastro, a forma di uovo, senza lineamenti, con due cavità scure alle occhiaie e un piccolo intaglio a mezzaluna alla bocca, le mani infilate l’un l’altra nelle maniche, marciavano leggermente ondeggiando a passo uguale, fra loro conversando; gli passarono accanto lasciando un forte profumo di ginepro (nella simbologia i ginepro è il simbolo del Cristo) ignorando la sua presenza, come fosse trasparente. Nonostante si stessero allontanando continuava a sentire, distinguendo chiaramente le parole, sempre sullo stesso volume, nel profondo tono armonico delle voci che si alternavano nel dialogo. Discutevano su una proprietà che era in procinto di essere usurpata…quando poi sentì nominare Ottone e il Campogrande il pensiero corse al suo piccolo podere e maturò la certezza che il tema della chiacchierata fosse proprio quello scampolo di sua proprietà che si trovava chiuso nei termini del campo di Ottone …
Nel frattempo la coppia era arrivata in prossimità del suo alter ego dormiente. Le due monache gli si piegarono sopra come per svegliarlo poi si accoccolarono sedendogli intorno mentre questi, dal sonno rialzandosi a sedere, cominciò a parlare come se continuasse una conversazione già iniziata.
Contemporaneamente si sentì risucchiato verso la sua stessa figura e cessò quella specie di sdoppiamento che lo aveva fatto spettatore e attore con la coscienza di essere lui di fronte alle monache che nel riacquistare normali sembianze gli sembrò riconoscere; ora, mentre le voci si assottigliavano fino a sparire, le parole erano diventate dialogo in una riflessione mentale nella quale il piccolo campo sembrava essere in procinto di cambiare proprietà … una serie di scossoni e il suo nome gridato a gran voce lo richiamò faticosamente alla realtà … i compagni di lavoro disposti intorno lo scrutavano con aria preoccupata …
Sei maggio, è il tempo della coltura dei bachi da seta (“cavàlee”); ovunque è possibile, negli spazi coperti, sugli stalli elevati a castello sono stese le tavole che accolgono i bianchi voraci bruchi, in continuità foraggiati e tenuti puliti in attesa che, compiuto il loro ciclo di crescita, salgano al “bosco” a rinserrarsi nella seta dei bozzoli.
Pian piano sta calando la sera, il buio avanza a sfumare gli edifici del cortile. Il raglio ritmato di un asino, acceso da una femmina in calore, in un crescendo di note si alza dalla stalla a sfrangiare il silenzio.
Nella cascina si stanno esaurendo le incombenze della giornata: preparata la foglia dei gelsi per rifornire i piani di coltivazione, regolate le bestie, consumata la cena, la famiglia si riunisce sotto il portico intorno al flebile tremulo chiarore di un lumino ad olio acceso davanti ai resti di un’immagine sacra incavata e dipinta sul pilastro che regge lo spiovente del basso tetto. I ragazzi seduti sulla nuda terra battuta del suolo, gli adulti sulle panchine addossate al muro. La Regiura: nella storpiatura dialettale del latino ecclesiastico avvia il Rosario: “Deus in adiutorium meum intende”, il borbottio altalenante di coro e assolo sveglia dall’ombra gli echi della sera … ora il fatto del giorno tiene banco: commenti, ipotesi, rammenti del tempo nel quale anche in famiglia furono presi a balia più volte orfanelli e trovatelli dall’Ospedale, animano la chiacchierata. Il decano, con intenzione, guardando verso i ragazzi e accendendone le fantasie, fa ancora qualche accenno alla leggenda del tesoro, all’avventura di “Pedar” e ai “Pór Mort” che, si dice, nella notte, vengano a tirare le gambe ai più discoli; infine non manca il richiamo al piccolo cadavere abbandonato all’Osteria e collocato poi nella chiesuola in attesa che il curato Civalli, avvisato, lo mandi a “levare”. È fede che l’anima gli stia vicina a vegliarlo e non lo abbandoni se non dopo la sepoltura … di nuovo qualche vago accenno agli spiriti e ai fantasmi di religiosi e religiose riesumati in minacce per tener calmi i ragazzi, … poi, gli sbadigli aumentano man mano il buio avanza…un ultimo giro di verifica fino al portone d’accesso al cortile, la pusterla laterale sarà chiusa dall’oste quando l’ultimo avventore sarà uscito…
Nell’Osteria gli ultimi ospiti arrivati nella tarda serata hanno già consumato quanto l’inserviente ha messo in tavola mentre il garzone ha staccato dal carriaggio la pariglia, riposto i finimenti e stallati gli animali… anche qui nel torpore che avanza si chiacchiera fantasticando sul fatto; l’oste, al quale è affidata la custodia della “chiesina” e che nelle ricorrenze e necessità fa da sacrestano, ne narra la vicenda sino alla deposizione del corpicino sull’altarino della chiesa. Alcuni contadini del San Gregorio e di Bernate che si erano dati appuntamento per concordare affitti di animali, prestiti di attrezzi e collaborazioni di lavoro concludono i loro affari; l’oste segna il costo di quanto consumato, salutano ed escono insieme dalla “pusterla” che dà sulla strada, …sbirciando di traverso buttano un’occhiata e un segno di croce alla porta accostata della chiesa e si avviano… percorreranno parte della strada insieme fino alla svolta per le rispettive cascine … chi rimane si avvia al riposo notturno…
…arriva la notte … da parecchio tempo, ormai, il monastero è deserto e ridotto a cassina da affittare; l’Osteria è l’immemore eredità dell’antica “mansio-mutatio” dell’epoca romana; lì, dove il fine non è più la preghiera ma la dura quotidianità del vivere; nella “chiesina”, degradata, a volte, quasi a deposito e magazzino, li, dove ora c’è poco o nulla dell’antica dignità, se non sbiaditi residui di sbrecciati affreschi che richiamano la sua sacralità, è posto il piccolo cadavere; lì, in luogo, al bordo esterno dell’edificio, nel poco spazio fra il solco dell’alveo e il ponticello sulla Molgorana, che conduce all’ingresso dell’ex Monastero, alla confluenza di un antico percorso verso Bernate e alla collinetta della “Bisa Bisoeula”, nonostante il già lungo trascorso di tempo, testimoniato da una croce, sopravvive il ricordo dell’antico cimitero, ove generazioni di monaci e monache chiusero la loro avventura terrena.
Lo stuolo di questi spiriti, nell’accoglienza dell’innocente, sorge salmodiando in un fervore di elevazione alla divinità, cullando la piccola anima immortale nella certezza della resurrezione; un millennio di presenze rappresentate da aneliti all’infinito, che nelle ricerca dell’assoluto dissolsero il loro vivere, riprendono forma evanescente nell’assemblarsi di un effluvio armonico accogliendone l’ombra.
L’oste sale la scala esterna che porta al ballatoio e di lì alle camere dove già si sono ritirati i suoi famigliari, mentre il garzone, che ha il suo giaciglio in un ripostiglio posto sopra quella specie di sacrestia che comunica con la “chiesina” e alla quale si accede dall’interno del cortile, passa ad abbassare la stanga che chiude l’usciolo della “pusterla” e, un po’ per abitudine e un po’ incuriosito dall’eco di un suono di voci, prima di sbarrarlo dà una “guardatina” all’esterno: dalla porta socchiusa della piccola chiesa esce una luce corposa, come di materia luminescente che traccia una striscia sul suolo; una vaga indefinibile sottile melodia lo avvolge; tutto intorno un flusso di sagome opalescenti ondeggiano generando basse vibrazioni armoniche … le mura perdono opacità e svelano un interno totalmente buio; emanazioni luminose rivelano profili di corpi che saturano gli spazi ma la loro luce non genera riflessi esterni: sembra riassorbirsi;… il piano dell’altare è vuoto, là, contro l’abside la figura di un giovane uomo giganteggia contro la curvatura dell’emiciclo confondendosi in semitrasparenza coi mattoni dell’architettura… ai piedi del piccolo altare la figura di una monaca velata, a capo chino, inginocchiata in atteggiamento di preghiera alza le braccia come ad invocare presenze assolute…
… il garzone arretra inciampando con le spalle nel portello, vorrebbe gridare ma la voce gli muore in gola in un gorgoglio rantolante … qualche istante…, poi, mentre corre verso il ballatoio inseguito da un suono luminoso, la voce si libera in un urlo lacerante, inumano, che si ripercuote rimbombando sotto la volta del portico a svegliare antichi suoni dispersi nel tempo;… dalle crepe, dagli antri, dalle tane, processioni di insetti emigrano in una tumultuosa fuga invadendo il cortile, …dalle stalle un trapestio di zoccoli ritma una tregenda …
… ma nella cascina tutto è e rimane calmo,… dalle camere non viene movimento alcuno … sembra che il tutto si svolga in una bolla e sia percepibile solo da una persona … il giovane cerca di salire la scala ma i gradini scorrono sotto il suo passo e rimane sempre allo stesso livello … poi, mentre un assordante coro di versi d’animali riempie il cortile, si leva improvviso un bagliore accecante emesso dai muri degli edifici … un inciampo, un tonfo e finisce per terra privo di sensi …
Pusterla: secondo il Vocabolario Milanese-Italiano di Francesco Cherubini:
“pusterla è una specie di seconda porta che per lo passato si usava quasi sempre tra la porta di via e il cortile delle nostre case, e invece della quale usa oggidì comunemente un cancello di ferro o di legno.”
A questa definizione si aggiunge quest’altra: “piccola porta di città per opposizione a porta primarja e principale”.
Aspetti, località e storia della Brianza. "Ci sono paesaggi, siano essi città, luoghi deserti, paesaggi montani, o tratti costieri, che reclamano a gran voce una storia. Essi evocano le loro storie, si se le creano". Ecco che, come diceva Sebastiano Vassalli: "E’ una traccia che gli uomini, non tutti, si lasciano dietro, come le lumache si lasciano la bava, e che è il loro segno più tenace e incancellabile. Una traccia di parole, cioè di niente".
[…] espositivo, e che meriterebbe una maggiore fruizione. Tempo fa Tonino Sala aveva raccontato del luogo, sia in chiave storica, sia proponendo un breve racconto fantastico, ispirato ad eventi reali, che […]