SULLE ORME DELLO SCIAGURATO EGIDIO (CAPITOLO 2)
OSIO GETTA NEL FIUME LAMBRO SUOR OTTAVIA
Avevamo lasciato l’Osio e le suore, nel buio della sera invernale sulla porta del Santuario. Il seguito ce lo racconta suor Ottavia, nel lungo interrogatorio, che sostiene, come abbiamo visto, nel monastero di Sant’Orsola, dove è stata ricoverata, seriamente ferita. “ Et partiti da detta chiesa ci aviassimo per una strada dietro al Lambro, et doppo siamo arrivati in un luogo che vi erano tre strade et dimandando io a Gio. Paulo Osio dove conducevano quelle strade esso rispose che una andava verso la Santa l’altra verso Vela, et io soggiunsi che non volevo andar per strade publiche perché saressimo state trovate, et cosi ci condusse per quell’altra et di novo arrivassimo un’altra volta al Lambro”. Possiamo aggiungere qualche altro particolare attraverso la deposizione dell’altra monaca “poi ritornassimo indietro per la medesima strada passando il ponte del Lambro che è vicino a detta chiesa”. Ora il quadro è completo, i tre sono tornati sui loro passi, hanno ripercorso, il ponte e preso verso nord. Il nodo stradale indicato, è da collocare in prossimità dei mulini di Val Negra, dunque un poco più a nord del Ponte delle Catene, che a quel tempo non esisteva, smentendo dunque quanto il Mazzucchelli superficialmente asserisce nel suo scritto sulla Monaca di Monza.
La costruzione del manufatto è contemporanea alla nascita del parco di Monza, negli anni attorno al 1820. Nella stessa occasione il ponte di Val Negra, e tutto il complesso dei mulini venne abbattuto. Nell’agglomerato dei mulini citati, un ponte permetteva di dirigersi verso la Santa, l’odierna Villasanta.
Proseguendo sulla sponda destra del fiume, si dirigeva invece verso il ponte di Canonica e ancora oltre si raggiungeva Velate. I tre hanno discusso, su come proseguire, infine si riavvicinano al Lambro, a questo punto l’Osio scopre le carte e svela il suo vero intento, ma lasciamo ancora una volta, la drammaticità degli eventi alle parole delle due monache. Suor Benedetta è esplicita “et quando fossimo poco lontano da detto ponte che ci eravamo aviati dietro al Lambro dove era uno zappello detto Osio gettò nel Lambro suor Ottavia” e poi aggiunge “et io corsi et li diedi la mano per aiutarla, et esso Gio. Paolo Osio venne, et presa detta suor Ottavia per una mano prese un archìbuggio che haveva sotto al ferraiolo di mediocre longhezza, et con esso diede molte percosse su la testa a detta suor Ottavia”. La diretta interessata suor Ottavia, introduce il tragico evento cercando di mitigare lo stesso, spiegandolo come frutto di una casualità che è invece totalmente estranea all’accaduto. Queste le sue parole “Doppo haver girato hor qua hor là et caminando dietro al Lambro son cascata dentro, et l’acqua m’ha tirata sino a quella chiusa dove l’acqua sì parte in due parti dì sotto dal monastero et posso dire che miracolosamente la Madonna mi transportò a quel luogo dove mi ritrovai assentata se ben mi passava l’acqua sotto, et mentre l’acqua mi conduceva via, io venni una volta alla riva et detto Osìo con suor Benedetta mi diceva che uscissi presto et mi volevano aiutare, ma l’acqua mi sbattè di novo lontano dalla ripa”. Abbiamo, in un crescendo di drammaticità, l’idea dell’accaduto, la monaca è spinta nel Lambro, l’altra suora cerca in qualche modo di andare in suo soccorso, la corrente del fiume, ostacola i tentativi di suor Ottavia di riguadagnare la riva, tanto che se si avvicina, subito l’Osio, dando l’illusione di venire in suo aiuto, si accanisce sulla sventurata con il calcio dello schioppo che ha estratto da sotto il mantello, la colpisce ripetutamente sulla testa e sulla mano, che cerca di opporre riparo alle percosse. Le suppliche sentite, della monaca in acqua e quelle più flebili di suor Benedetta, non sortiscono alcun effetto sullo sciagurato Egidio, che è deciso a sopprimere la scomoda testimone. Esausta e senza speranza la monaca si da per morta, nell’estremo tentativo, che sembra riuscire, di placare la veemenza dell’Osio. La corrente la trascina a valle e l’Osio, certo che il delitto sia compiuto, scompare dalla vista della suora. Le versioni delle due monache non collimano perfettamente, suor Ottavia è apparsa più reticente nell’addossare la piena responsabilità all’Osio, solo qualche giorno più tardi, il 18 Dicembre, quando le sue condizioni di salute peggiorano, tanto da portarla alla morte il giorno di Santo Stefano, la suora porge piena confessione, liberandosi l’anima da ogni peso rettifica i termini del suo dire “dissi la bugia circa la mia caduta nel Lambro, et botte che ho su la testa perché è vero che fu detto Gio. Paolo Osio che mi fece quanto poi ho deposto, et fu anco esso che mi gettò nel Lambro”. Ma torniamo alla notte del 29 Novembre con la suora ancora nel fiume. Nell’illusione dello scampato pericolo, appena occorso, suor Ottavia racconta ancora, “l’acqua m’andava tirando in giù et così son giunta con l’aiuto della beata Vergine la quale pregavo che non mi lasciasse morire in quel peccato ma mi dasse tempo di potermi confessare, son giunta dico notando sino a quel luogo dove mi sono trovata assentata. Et stando ivi sempre ho cridato ah per l’amor di Dio aiutatemi ma alcuno non m’ha sentito o non m’hanno voluto sentire onde son stata là assentata lo spatio di qualche tre ore sino a giorno, che poi è venuto un contadino che sta in quelle case, et m’ha condotto sino a casa sua”.
SUOR OTTAVIA E’ SALVATA DAGLI ABITANTI DEL MULINO E VIENE AVVIATA ALLE GRAZIE
La suora resta in acqua, per lungo tempo, aggrappandosi alla chiusa del mulino, fino al momento in cui, gli abitanti dello stesso la traggono in salvo.
Stiamo parlando, dei tre mulini delle Grazie, che segnavano il fiume poco prima che questo entrasse nella città di Monza. Sono indicati, sulla carta dell’ingegner Barca nel 1616, quando descrive, con minuzia di particolari, il Lambro, le sue derivazioni, e i suoi insediamenti. All’epoca dei fatti, sono conosciuti come i mulini, di Prospero Beatore.
I mulini sono purtroppo scomparsi. Verso la metà del secolo scorso lasciarono il posto ad un insediamento industriale. Anche questa attività è oggi smessa e un desolato greto del fiume rimane a segnare il luogo, proprio al disotto del ponte di via Boccaccio.
Torniamo ancora una volta alla famigerata notte, ed attraverso la voce di Caterina Morona detta “Alessia”, che conduce uno dei mulini citati, possiamo renderci conto degli eventi. La testimonianza risale a qualche giorno dopo l’accaduto, precisamente al 4 Dicembre, ma la giustizia ha seguito il suo iter, passo dopo passo scrupolosa, è arrivata a convocare la testimone, per la deposizione ufficiale. Siamo come citano gli atti “nella stanza superiore delle case della fabbrica della chiesa di s. Gio. Battista di Monza” e la “molinara” ci racconta “venerdì a mattina prossima passata nell’alba sendo nel letto sentei una voce che diceva et sì lamentava ohimè ohimè, et pensando, che fosse qualche mio figliolo che piangesse, che dormono di sopra chiamai Margarita qual dorme sopra la mia camera con i miei figlioli dicendoli se era qualche d’uno dei miei figlioli che piangessero, et essendomi risposto di no subito mi levai dal letto et andai a pigliar la lume et apprei la finestra che è verso il Lambro, et sentei di nuovo detta voce, che era nel Lambro, et subito dimandai su su che è una voce nel Lambro; il che sentito da Battista Massaglia qual all’hora si ritrovava in casa mia ma hora sta a Milano in un molino vicino a s.to Marco si levò dal letto, et andò verso il Lambro nella chiusa del molino che io tengo quasi vicino a mezzo di detta chiusa dove stava una di dette monache assentata sopra un pallone che tiene la chiusa et la pigliò in bracio et la portò nella mia corte qual vidi che era vestita da monacha et haveva i capelli tosati, et il volto sanguinolento”.
Finalmente gli abitanti del mulino, nonostante le titubanze e le possibili opposizioni, si sono decisi ad intervenire per prestare soccorso alla sventurata, non si sa quando si rendono conto dell’identità della donna, ma certamente quando lo fanno si accorgono che la situazione non promette niente di buono e che è bene tenersene fuori. Tanto che suor Ottavia, nel raccontare il finale del suo recupero dice, ”scoperto che ero monaca di s. Margarita et che mi tenessero ivi sino a notte, et che poi mi conducessero al monastero ma ne lui né li suoi di casa hanno voluto ma m’hanno scacciato ma dandomi solamente un bastoncello d’appoggiarmi col quale sono andata alla chiesa delle Gratie”. Dunque attrezzano alla bene e meglio la monaca e la dirigono verso il vicino monastero delle Grazie, affinché altri intervengano. Ci piace a questo punto condurre una piccola digressione su questa umanità, che popola il mulino, e che come abbiamo visto, forse giustamente visti i tempi e i fatti, non vuole immischiarsi in situazioni troppo compromettenti, tanto che anche attraverso l’interrogatorio che sostiene la “Alessia” possiamo leggerne la volontà. La Morona conduce il mulino sappiamo che ha circa 29 anni, ha dei figli, la presenza del Missaglia che svolge una attività analoga a Milano resta sospesa in questo alone d’incertezza, non restituendoci i contorni del suo rapporto con la donna. Conosciamo ancora, sempre attraverso la deposizione, che sotto il tetto convive una certa Margarita, che accudisce i figli e abbiamo ancora notizia di un figlio e un nipote morti annegati nel Lambro, che di certo era fonte di un reddito sicuro, per l’attività molitoria, ma era stata causa di lutti pesanti. Un domestico completa la cerchia di persone che gravitano attorno a Caterina Morona. Il domestico è appunto inviato verso il convento delle Grazie per avvisare i frati della presenza monacale al mulino. Quella mattina c’è un certo va e vieni dal mulino verso il convento e viceversa, differenti volte, le persone coinvolte, stando alle deposizioni, dovrebbero incrociarsi sul breve percorso, ma abbiamo più spesso notizia che per un motivo o per l’altro gli “appuntamenti” sono disattesi, si coglie questa impressione forse per la reticenza che i testimoni esprimono nelle loro deposizioni, sempre dettate dalla cautela. In ogni caso in qualche modo la Monaca giunge alle Grazie, preceduta dall’annuncio del “fameglio”, della Morona, Dionisio. Anche qui la situazione è gestita con la massima prudenza possibile, la clausura infranta, è fonte di vero imbarazzo e paura. La macchina della giustizia, che abbiamo visto, prendere avvio qualche giorno prima, con l’ingresso del Vicario Criminale Saracino, nel monastero di Santa Margherita, ora sale definitivamente al proscenio. E’ il 30 Novembre, di prima mattina, il notaio Francino è ospitato, in compagnia del vicario criminale, nella casa dell’arciprete di Monza, Gerolamo Settala, quando lo stesso trafelato raggiunge i due e annuncia “ci è dì novo” , il guardiano del monastero delle Grazie, gli ha appena lasciato un messaggio “Sua signoria molta reverenda manda quanto prima che è capitato una monica dì s.ta Margarita tutta ferita non altro per freza ma con bona guardia perché so quello che dico ma in secretto con sua signoria”.
firmato “Il Guardiano delle Gratie”.
E’ questa la prima notizia che arriva alle autorità circa la fuga delle due monache, tanto che il vicario invia il notaio a Santa Margherita per accertarne la veridicità. Nel frattempo lo stesso vicario e l’arciprete si recano alle Grazie, dove sono poco dopo raggiunti dal notaio che conferma, per quanto ce ne sia bisogno, che nel monastero non sono presenti all’appello le monache Ottavia Ricci e Benedetta Omati. Del resto suor Ottavia e li davanti a loro, siamo in un locale fuori dal monastero, in una piccola cella del cimitero dello stesso, evidentemente i frati hanno ritenuto opportuno tenere la suora in una posizione discreta, lontano dagli ambienti in cui si svolge la vita comunitaria. Accertatane l’identità, di comune accordo, il vicario e l’arciprete, avviano la monaca verso sant’Orsola, dove possa essere ricoverata e curata. Siamo in grado di ricostruire il frenetico susseguirsi dei fatti dal momento che suor Ottavia è avviata dagli abitanti del mulino, verso le Grazie, sino all’arrivo della squadra degli “investigatori”. Sono da guida gli interrogatori svolti il 1 Dicembre sempre presso Le Grazie dal sostituto vicario criminale, Mattarello, ancora in compagnia del notaio. L’autorizzazione all’interrogatorio dei frati è stata ottenuta e “In una stanza chiamata il studietto, situata nel monastero di s. Maria delle Grazie dei frati mendicanti dell’Osservanza, della regola di s. Francesco, a Monza” procede la deposizione del guardiano del monastero Angelo Pozzi e fra Pietro da Vigevano che ha assistito la monaca, una volta ricoverata nella cella del cimitero. Apprendiamo che lo stesso guardiano mentre tragitta verso il mulino, chiamato dalla Alessia, rinviene sulla sua strada il calcio dello schioppo che è stato usato per percuotere suor Ottavia e che poi l’Osio ha perso o abbandonato. Quest’ultimo particolare rafforza la collocazione del punto in cui finisce in acqua la monaca, poco prima o poco dopo il ponte delle Grazie, vista anche la dinamica dei fatti e la testimonianza del frate “lo trovai un calce d’un archibugio o terzarola là vicino alla riva del Lambro tra il ponte, et il molino, e discosto dal detto ponte da dodeci braccia in circa di hier mattina mentre andai al molino da la detta Alessia”.
L’evento ha avuto il suo peso ed è ora di dominio pubblico, tanto che altri si sentono autorizzati e forse in dovere, più o meno incoraggiato, di dare il proprio contributo alle indagini. In questa luce si colloca la sortita di “Gio. Angelo Pennati detto il Brianzolo, figlio del fu Battista, abitante nel borgo di S. Gerardo fuori Monza. Si tratta del messo del vicario criminale che nella giornata del 1 Dicembre ha consegnato e ritirato documenti, in alcune località della Brianza, ma ecco le sue parole, rilasciate “nelle case della fabbrica di s. Giovanni Battista di Monza”. “Ritornando io in questo punto da vostra signorìa ed è all’incirca l’ora 18 (et est hora 18 vel circa) con la risposta delle lettere che d’ordine suo hieri portai a Vimercato a Massaglia, et a Monte, passando per la strada delle Gratie qui fuori di Monza ho visto una donna et un putto della casata de Valsasnetti che non so mo dire per la lontananza quali siano di loro che portavano sopra un palo una pellizza [et pensando] che da verso il Lambro la portavano verso casa sua che stanno vicino alla casa di mia habitatione, et perché mi son imaginato che sia qualche cosa d’importanza son venuto a denonciarlo massime che ho visto levarsi fuori del Lambro vicino al molino”. Possiamo aggiungere colore e sostanza alla ricerca grazie a questa testimonianza. La chiamata in causa dei Valsasnetti inserisce un ulteriore quadro della vita comune di quegli anni e di quella gente. Un giovane ragazzo, avviato a pascolare forse l’unica vacca della famiglia sui campi fuori Monza, che da San Gerardo conducono alle Grazie, ha avuto, purtroppo ora sul punto di andare in fumo, la fortuna di trovare a pelo dell’acqua forse impigliata in qualche ramo la “pellizza” che vestiva suor Ottavia e che questa aveva perso o se ne era disfatta durante la sua lunga attesa nel Lambro, prima di venir salvata. Un capo d’abbigliamento di qualche valore, per una famiglia di ceto popolare, a cui appartiene il ragazzo. Lo stesso avvisa la madre, che arriva al fiume, con la cugina dello stesso, Maddalena, di vent’anni e assieme recuperano il capo che posto su una pertica come trofeo viene portato verso la loro abitazione. Sfortuna vuole che il Pennati li colga da lontano e che prontamente denunci l’episodio. Di gran carriera, raccolta la testimonianza il vicario e il notaio fanno strada verso l’abitazione degli sventurati, che vivono vicino alla chiesa di San Gerardo. Trovano in casa quattro donne e subito reclamano il capo, si tratta di “un indumento femminile bianco, di pelle, con una balzana di panno azzurro, in volgare turchino”. Isabella de Valsasnetti, immediatamente mette a disposizione il capo, informando sulle modalità del ritrovamento, effettuato dal figlio Ambrogio e dalla nipote. Spiega che conserva il capo in attesa che il legittimo proprietario lo reclami. Ne il ragazzo ne la madre hanno conoscenza circa la proprietà del capo, solo la cugina timidamente afferma, che visto il luogo in cui hanno trovato la “pellizza”, ha ipotizzato potesse appartenere a quelli del mulino appena sopra e che aveva pregustato di “guadagnare una pollenta” una volta reso l’indumento. Purtroppo ne la polenta ne l’indumento possono confortare i Valsasnetti perché prontamente il notaio verbalizza “Dopo queste risposte ecc. la congedai e portai con me le cose suddette”. Veniamo ora al commento che le indicazioni del Pennati, ci sollecitano. Le deduzioni che si ricavano, aggiungono costrutto per rafforzare l’opinione sul percorso compiuto dai fuggiaschi. Abbiamo notizia che il messo è stato a Vimercate la mattina, poi doveva dirigere verso Missaglia, possiamo ipotizzare che volge il cammino verso Velate, poi per Casatenuovo e infine giunge a Missaglia. A questo punto viene riferita la località di Monte, il Farinelli nel suo ultimo scritto citato “La monaca di Monza nel tempo, nella vita e nel processo originale rivisto e commentato” ipotizza che Monte possa essere identificato con Montevecchia oppure Monticello. Le due località, come lo stesso Farinelli ammette, non si sposano bene con l’ordine con cui il teste le cita. Pensiamo più propriamente doversi trattare di Montesiro, (ancora nella parlata dialettale il paese è citato come “Münt”) oggi frazione di Besana Brianza, ma nel passato entità autonoma e nota anche per la presenza di un castello. Quest’ultima località ci fa pensare, che al ritorno il Pennati, seguendo la strada più ovvia e comoda sia ridisceso velocemente per Tregasio e giunto a Canonica abbia passato il Lambro e proseguito sulla destra dello stesso sino a giungere alle Grazie per passare nuovamente il fiume e dirigere, attraverso la strada omonima, verso San Gerardo dove appunto scorge i Valsasnetti che portano a casa la pelliccia. Ecco dunque una prima conferma sulla notizia che una viabilità praticata e consueta per la Brianza, si svolgeva sulla ripetuta nota ”direttrice del Gernetto”.
Suor Ottavia, ricoverata a Sant’Orsola riceve la visita del chirurgo Vimercati, che può solo constatare le gravi ferite alla testa della suora e con quello che la medicina del tempo permette, prestare cure poco efficaci, che come abbiamo visto non salveranno la vita della monaca.
ALLA PROSSIMA PUNTATA….