Una storia d’altri tempi: “Il Piripipeta”
Diamo spazio ad un lavoro dell’amico Ermanno Riboldi, che scavando nei suoi ricordi di quando era bambino, ha ricostruito la storia che proponiamo. A quei tempi erano conosciute come “panzane” ci spiega, racconti che riempivano le serate degli abitanti delle cascine, in quelle riunioni che vedevano più generazioni “pendere” dalle labbra del narratore, che conscio del suo ruolo, seguendo un canovaccio di cui era padrone, sapeva con arguzia e sapienza, tipica della persona saggia e vissuta, indirizzare e sviluppare le sue storie, assecondando quelli che erano gli umori del momento.
Di certo, oltre alla circostanza conviviale, in cui erano vissuti questi momenti, la narrazione svolgeva differenti funzioni non tutte identificabili a prima vista. Il narratore era spesso il “regiù”, colui che dava un indirizzo preciso alla comunità a cui presiedeva e senz’altro anche questo momento, serviva per ribadire il suo ruolo. L’accennata capacità, di dirigere la narrazione su contenuti che uscivano dalla “trama guida”, aveva lo scopo, che è tipico della “favola”, a cui possiamo associare questo tipo di narrazione, di svolgere un’azione educativa e moralizzatrice. Non è da escludere poi, la volontà d’indirizzare messaggi precisi, sempre protetti da questo apparente distacco, che la “narrazione favolistica” permette. Poteva essere la valutazione od un commento ad un evento vissuto in quel momento od ancora la necessità di dirigere l’attenzione verso un soggetto della comunità che in quel momento, andava redarguito, guidato, esortato. Non possiamo dimenticare, come Ermanno ricorda, che durante questi racconti, nessuno era con le “mani in mano” , ma le serate venivano riempite da lavori più o meno importanti che comunque avevano un peso sull’economia contadina. Dunque una “colonna sonora”, oggi diremmo, che permetteva al tempo di scorrere più veloce ed alleviare anche queste ultime fatiche della giornata, senza però mai essere un semplice “sottofondo”, specialmente per i più giovani, che attraverso questi racconti, ora paurosi ora fantastici, potevano evadere dal quotidiano e immergersi in mondi per loro irraggiungibili a cui vista la loro giovane età, potevano ancora aspiravano.
Senza imbarcarci in un’analisi tediosa sul contenuto della narrazione, non possiamo esimerci da alcune sottolineature. Ermanno c’informa che il narratore era il nonno Giuseppe, nato nell’ultimo ventennio dell’800, aveva partecipato alla guerra Italo-Turca e alla Prima Guerra Mondiale. Senz’altro in queste occasioni aveva elaborato, dalle narrazioni che aveva raccolto da commilitoni più o meno eruditi e nelle esperienze vissute in prima persona, quello che sarebbe stato poi il canovaccio della sua rappresentazione. Tutto il racconto è un mix sorprendente di differenti fonti narrative, che si fondono omogeneamente. Possiamo senza ombra di dubbio definire la narrazione come non propriamente “brianzola”, o meglio non unicamente. Gli spunti che emergono e che sono comuni alla “favolistica” della Brianza possono essere la presenza di San Pietro e Gesù prima e Dio verso la fine del racconto. Questa presenza è ripetuta in diversi racconti che hanno origine in Brianza. La vicenda di Trezzo rimanda alla presenza del fantasma di Barnabò Visconti, e delle sue vittime, come del resto il racconto esprime palesemente. I Promessi Sposi hanno il loro peso sulla narrazione delle peste. La Divina Commedia è fonte per diversi altri passaggi. La ripetuta presenza del diavolo e della morte, è comune all’intera favolistica occidentale, e ripetuta anche in Brianza.
Il riandare a personaggi per niente scontati per l’epoca, come Galilei Galilei, possono essere il frutto di frequentazioni militari di connotazione territoriale e livello culturale preciso. L’intero racconto, in cui il viaggio è inteso come metafora dello scorrere della vita umana, descrive nel percorso del protagonista, sia luoghi prossimi e conosciuti alla platea degli ascoltatori, per avvicinarli ancora più alla vicenda, rendendoli protagonisti, sia l’andare verso luoghi esotici, che facevano parte di quel patrimonio, del “nonno-narratore”, di cui abbiamo parlato e che servivano a “colorare” l’esposizione e incantare gli astanti. Infine l’ispirazione che regge tutta l’intera vicenda è mutuata da una favola popolare che ha origine in Corsica. Rivista ampiamente per quanto riguarda il latore del dono, che dalla fata nella versione originale, diventa San Pietro, nella nostra. Ancora la presenza del bastone che nella storia originale ha una funzione magica che da noi scompare, preservando la sola sua presenza, anche se spesso ritorna a ricalcare in taluni avvenimenti la funzione di “punizione” a cui è associabile il bastone nel simbolismo della favola. Si riscontra invece la positività della figura del Piripipeta, che ricalca quella del protagonista della fiaba corsa.
Si distacca e dirige verso altre vicende, il dono dell’immortalità, che comunque affonda le sue radici nella mitologia antica e si è riproposto d’allora nelle più svariate forme che la narrazione è stata in grado di originare. Immortalità, che il protagonista riceve e infine vuole restituire per poter concludere in pace la sua esistenza terrena. Si osserva, in questo epilogo, un riavvicinarsi alla narrazione originale dove è la morte a cogliere il protagonista, dopo che questo ha visto esaudito il suo desiderio di rivedere la fata che gli aveva offerto in principio i doni. E’ invece di Dio, in una visione cristiana e dunque meno laica, l’intervento che finalmente toglie dalle ambasce della vita terrena il nostro Piripipeta che può raggiungere infine il paradiso. Alcune ultime note sulle origini della fiaba. Saute en mon sac! è il titolo originale della fiaba raccolta da J.B. Frédéric Ortoli ne “Les contes populaires de l’île de Corse”, edita a Parigi nel 1883. La sua origine è comunque più antica e si rifà alla tradizione popolare. Un’ulteriore curiosità, nel 1956 Italo Calvino, inserisce la favola nella raccolta “Fiabe Italiane” con il titolo “Salta nel mio sacco!”. Citiamo una nota dell’autore, a proposito di questa scelta: “Con questa fiaba, saggia e stoica, ho voluto che il libro si chiudesse”. Un pensiero che può solo fare onore e vestire di una lungimiranza inaspettata il nostro cantastorie, Giuseppe Riboldi che inconsapevolmente ha visto a distanza di anni dalle sue narrazioni, riconoscere il valore della sua scelta da tanta personalità.
Un ringraziamento va a Michele Pilotti, che ha contribuito alla realizzazione del lavoro.
Lasciamo ora la parola ad Ermanno…
INTRODUZIONE
Voglio raccontarvi una delle vecchie storie che comunemente venivano chiamate “panzane”, racconti un po’ fantasiosi senza una precisa collocazione storica. Queste panzane erano raccontate dagli anziani, “i regiù “, nei lunghi inverni vicino al camino o nel caldo delle stalle delle cascine, quando si aggiustavano gli attrezzi e si costruivano le scope di saggina, o durante lo “spannocchiamento” del granoturco nelle sere d’autunno sotto i portici. Lo “spannocchiamento” del granoturco “furmentun” era la fase finale della sua coltivazione, che iniziava in primavera, con la semina a mano, chicco per chicco, facendo un buco nel terreno con un bastone di legno ricurvo detto “ficon” e coprendo poi il buco con il piede. Sempre con la schiena piegata verso il basso seguendo una linea diritta tracciata con un grande rastrello con solo tre o quattro denti, chiamato “rastelon”. Man mano che la pianta cresceva avveniva la zappatura, poi si passava tra le file con un piccolo erpice, chiamato “rampighin” trainato da un cavallo o un asino, successivamente allo stesso attrezzo si applicava un vomere che passando sempre tra le file creava un solco centrale. Del granoturco non si buttava nulla, in estate, quando la pianta era ancora verde si tagliava la parte finale al di sopra della pannocchia con le foglie e successivamente venivano asportate tutte le foglie del tronco, che erano usate come alimento per il bestiame. Il fusto della pianta era lasciato spoglio con solo le pannocchie. All’inizio dell’autunno si coglievano le pannocchie togliendole dal tronco per essere portate in cascina per lo “spannocchiamento” e i tronchi i “malgasc” si raccoglievano in fascine e fatti essiccare per essere bruciati nei camini. Lo “spannocchiamento” di solito avveniva sotto i portici delle cascine e spesso di sera alla fioca luce di qualche candela. Il buio, le ombre e le panzane facevano venire un bel po’ di paura ai ragazzi che si stringevano sempre di più nel cerchio attorno al mucchio di pannocchie tanto che il fastidio provocato dal contatto con la barba del granoturco, passava in secondo piano. Le pannocchie venivano private di tutte le foglie, solo alle migliori ne venivano lasciate qualcuna per farne mazzi. Erano poi legate con del salice ed appese sotto i portici come riserva e semenza per l’anno successivo. La sgranatura dei chicchi avveniva infilando le pannocchie in una macchina semi-manuale fatta di legno a forma di parallelepipedo che aveva all’interno una ruota dentata, questa girando toglieva i chicchi dal “burlit”, la parte legnosa centrale della pannocchia. Dal basso dell’apparecchiatura uscivano i prodotti. I chicchi venivano poi essiccati e macinati per fare la farina per la polenta e i “burlit” erano bruciati nel camino. In molte canzoni e detti popolari, gli oggetti o gli attrezzi da lavoro hanno un parallelo con la simbologia sessuale, in contrapposizione ad una cultura in cui l’atto sessuale era considerato un gesto peccaminoso, vissuto molte volte con un senso di colpa. In molte cascine, ancora nel dopoguerra, si trovava scritto sui muri: “Dio ti vede”; immaginatevi l’effetto psicologico sulle coppie di contadini quando vedevano questa scritta prima di andare a letto, dopo una giornata di lavoro nei campi. Riallacciandosi ai parallelismi poc’anzi citati, basta il ricordo della canzone dello “Spazzacanino” dove l’allusione pruriginosa è evidenziata dalla strofa: “e dopo aver mangiato, mangiato e ben bevuto, gli fa vedere il buco, il buco del Camin”. La sgranatrice non sfuggiva a questa simbologia. Chiamata comunemente “La Giorgia”, come una signora molto nota nei paraggi per la sua disponibilità e generosità verso gli uomini. La Giorgia era un po’ come la macchina del granoturco, tutti i maschi “passavano” da lei, senza vincoli duraturi e distinzione di censo sociale. Così, la storia del Piripipeta, a volte si arricchiva di allusioni più o meno esplicite, che noi ragazzi percepivamo dalle risate degli adulti, ma quella che vi racconto è l’originale adatta alle famiglie.
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Il Piripipeta
La storia del Piripipeta è ambientata nel ‘600, narra le vicende di un giovanotto che abitava dove oggi è situata la “Ca Rusa” di Velate con l’anziano padre ed il fratello.
Il padre consapevole, che non gli restasse ancora molto da vivere, il giorno di Santo Stefano, chiamò a se i figli, per accompagnarlo per l’ultima volta a tracciare le croci nei campi con la cenere del Natale, come auspicio per un buon raccolto nella stagione successiva.
Dopo qualche mese il padre si aggravò chiamò a se i figli, al maggiore disse di prendersi una buona moglie e di continuare a lavorare la terra, mentre lasciò libero il Piripipeta di soddisfare la sua voglia di girare il mondo lasciandogli in eredità un sacco, la pipa e trenta ghei
Con in spalla il suo sacco e i soldi in tasca s’incamminò a piedi verso Velate. Si fermò per chiedere l’intercessione alla Madonna della piccola cappella in mezzo ai campi, oggi detta del “Pasin”. Finito di pregare vide un mendicante seduto in un angolo che chiedeva la carità. Il Piripipeta pensò: ” posso fare a meno del tabacco per la pipa” così donò dieci dei trenta centesimi al povero. Attraversata la Tamburina, si ritrovò sul viale alberato che da Velate porta al convento del Mongorio, e lì sotto una pianta vide un altro povero che chiedeva l’elemosina, “posso fare a meno anche del pane e del vino” pensò il Piripipeta e così diede altri dieci centesimi al secondo povero. Era quasi buio quando sulla curva per entrare in Velate il Piripipeta incontrò un terzo povero e donandogli gli ultimi dieci centesimi pensò che un posto “alla buona” per dormire lo avrebbe comunque trovato.
A Velate trovò da dormire nel sottotetto che sta sopra all’ingresso della “curt del sacrista”, stese il sacco e si addormentò.
Forse erano i morsi della fame, ma al Piripipeta sembrò di vedere San Pietro che gli disse: “ io sono il povero a cui hai fatto per tre volte la carità e visto il tuo buon cuore puoi chiedermi tre grazie ricordandoti però che devi pensare a salvare l’anima”. Un po’ frastornato il Piripipeta snocciolò sicuro i suoi desideri. Come prima cosa quando dico “salta nel sacco” tutto ciò che desidero deve entrare nel mio sacco, poi vorrei che la mia pipa fosse sempre carica e accesa senza bruciarmi le tasche e terzo …?!
San Pietro lo fermò per ricordargli che doveva esprimere un desiderio che gli permettesse di salvare l’anima.
Il Piripipeta allora disse: “come ultimo desiderio chiedo di restare giovane e non morire così salverò anche l’anima”. San Pietro osservò come l’ultimo desiderio, di fatto contenesse due richieste ma: “visto che tu non ci hai pensato molto per farmi l’elemosina dico che i tuoi desideri saranno esauditi” e di colpo scomparve.
Al risveglio il mattino seguente, il Piripipeta si ricordò subito dello strano sogno ma cacciandosi le mani in tasca trovò la pipa accesa e cominciò a pensare che forse non aveva sognato. Volle così verificare se anche la seconda richiesta fosse stata esaudita. Li vicino c’era una vecchia scopa e subito disse: “salta nel sacco” e la scopa s’infilò nella sporta. Scese nella strada principale del paese sulla quale si affacciavano i negozi e le botteghe che allora non avevano vetrine.
Vicino alla bottega di un fornaio, aspettò di non essere notato da nessuno e osservando un paio di pagnotte pronunciò la fatidica frase “salta nel sacco” e le pagnotte passarono dal banco della bottega al sacco del Piripipeta che ripeté l’operazione davanti alla salumeria per una fila di salamini e presso la bottega di un oste per un fiasco di vino. Senza dare troppo nell’occhio si avviò verso l’allora convento della Brugorella e all’ ombra di una pianta mangiò, bevve e si fece una fumatina prima di schiacciare un pisolino. Svegliato dal suono della campanella del convento, chiese alle monache se poteva pernottare nel fienile, le monache acconsentirono.
Il mattino dopo si svegliò presto, lavorò tutta la mattinata tagliando legna, per ripagare le monache dell’ ospitalità e al pomeriggio si avviò verso la locanda della masseria del Bettolino. La locanda del Bettolino era un importante luogo di sosta per i viaggiatori del tempo, essendo a metà strada sulla direttrice Milano-Monza-Lecco. Il nucleo abitativo era composto da due corti collegate tra di loro ed ognuna era dotata di un pozzo d’acqua per l’approvvigionamento idrico. L’oste conosceva un po’ tutti gli abitanti delle frazioni di Velate perché proprio nel cimitero vicino venivano seppelliti i morti.
Ancora oggi a Velate quando si dice: “l’han purtà al Betulin” vuol dire che gli hanno fatto il funerale. Dopo il funerale era consuetudine, solo per gli uomini, fermarsi in tutte le osterie e alleviare il dolore con qualche pinta di vino.
Il Piripipeta che conosceva l’oste, anche per via del recente funerale del padre, gli chiese ospitalità per dormire nella stalla. L’oste acconsentì ed il Piripipeta si sedette ad ascoltare un’animata discussione tra carrettieri che si erano fermati a far riposare i cavalli e bersi un bicchiere di vino. La discussione si animava attorno al contenuto di una “grida”, affissa nei borghi circostanti, per il reclutamento di persone disposte a sorvegliare la figlia del viceré, nel castello di Trezzo. Pur essendo molto alto il compenso, nessuno si era presentato. Secondo i carrettieri la figlia del viceré doveva essere sacrificata al diavolo nella prima notte di luna piena per far finire la peste.
Il Piripipeta decise di raggiungere la stalla, per sdraiarsi, pensando fra se e se che forse valeva la pena fare un giro a Trezzo. Era quasi buio, guardò il cielo e vide la luna con la gobba a ponente, mancava quasi una settimana, prima che diventasse piena, aveva tempo. La mattina successiva salutò l’oste e si diresse verso Vimercate. Lungo la strada usava i “poteri” del suo sacco, per quel che gli necessitava e barattava il superfluo per raggranellare qualche soldo. Così si fermò nelle vicinanze del ponte di San Rocco in una locanda per raccogliere maggiori informazioni su quanto aveva sentito al Bettolino.
L’oste sulle prime restò vago, ma quando vide il luccichio delle monete raccontò al Piripipeta che la questione era seria, il viceré si era impegnato ufficialmente in chiesa a sacrificare la vita della figlia al diavolo, pur di scongiurare il flagello della peste che stava decimando il territorio. Il luogo indicato per il sacrificio era la torre del castello di Trezzo, alta più di quaranta metri era posta a strapiombo sul corso del fiume Adda, alla sua sommità si apriva la vista su tutta la valle del fiume.
Sul castello aleggiavano strane storie di fantasmi. Taluni dicevano che nel maniero si aggirava lo spettro della figlia di Barnabò Visconti, fatta da lui gettare in un condotto, a picco sul fiume ed irto di lame affilate, per punirla del suo amore verso uno stalliere. Altri erano convinti che il fantasma fosse una delle amanti dello stesso Barnabò, fatte sparire allo stesso modo. L’oste informò il Piripipeta, che nessun cavaliere, soldato o popolano si fosse presentato volontario, per sorvegliare la fanciulla. La paura d’incontrare il diavolo ed il timore delle storie, sui fantasmi, erano troppo forti. Il Piripipeta si accomiatò dall’oste e senza svelare i suoi propositi, si avviò verso Trezzo con l’intenzione di proporsi per proteggere la figlia del viceré. Avrebbe potuto guadagnare qualche soldo, visto che ad ogni incrocio, il bando d’arruolamento prometteva generosi compensi.
Nel borgo di Trezzo tutti si accingevano a sbarrare porte e finestre, anzi, nelle vicinanze del castello molti avevano abbandonalo le case. Ormai mancavano solo poche notti alla luna piena e nel castello non c’era anima viva se non il viceré ed uno sparuto gruppo di guardie che non vedevano l’ora di andarsene.
Il Piripipeta si offrì al viceré proponendo di proteggere la figlia, in cambio oltre al vitto e all’alloggio, chiese un compenso, che dopo un po’ di contrattazione fu fissato in dieci volte quello promesso dal bando. Dopo di lui non si presentò più nessuno. Di giorno il Piripipeta, si riservava del tempo, sostituito dalle guardie, per schiacciare un pisolino e controllare la disposizione della torre. Chiese che la figlia del viceré fosse portata nella stanza all’ultimo piano, in modo che chiunque volesse raggiungerla, avrebbe impiegato parecchio tempo per salire le scale.
Il sole era al tramonto e la luna piena già faceva capolino sulla sponda bergamasca, il Piripipeta pensò che quella doveva essere la serata giusta. Man mano che scendevano le tenebre aumentava di forza anche un vento gelido che tagliava il viso. Ovunque spaziasse il suo sguardo, solo tenebre, non una luce accesa nelle case sottostanti, unica la luna illuminava il paesaggio circostante.
La figlia del viceré singhiozzava sapendo bene la fine che avrebbe fatto, con una sola persona a difenderla. Iniziò così a raccontare al Piripipeta la sua storia, molto simile a quella del fantasma. Lei si chiamava Teresa, in realtà il suo sacrificio era stato architettato dal padre per farsi benvolere dal popolo e liberarsi di lei ché si era innamorata di Tommaso, il figlio del loro giardiniere. Il padre l’aveva già segregata in convento, Tommaso l’aveva raggiunta, ma era stato scoperto ed era riuscito, in modo fortunoso, a salvare la pelle. Ora Teresa non sapeva più nulla di lui. Il Piripipeta la rincuorò dicendogli di avere fiducia e di raccomandarsi a San Pietro.
Dalla torre si sentirono scandire lentamente i rintocchi della mezzanotte e la luna piena era alta nel cielo. Dal fondo della torre salivano rumori di passi, che avevano poco di umano e man mano si avvicinavano, con il loro “toc” “toc” simile allo sbattere degli zoccoli di un animale. Sentendo i passi fermarsi dietro la porta, Piripipeta disse” ci siamo”, raccomandando a Teresa di stare sempre dietro di lui. La porta si aprì e comparve il diavolo, una visione che faceva accapponare la pelle, assomigliava ad un caprone, aveva una lunga coda, le corna ed una faccia spaventosa. Il diavolo rimase un po’ sorpreso alla vista dei due e disse che in fin dei conti due anime da portare all’inferno erano meglio che una. Si avvicinò per afferrare il Piripipeta, ma egli approfittando della breve titubanza del diavolo disse “salta nel sacco”, il diavolo fu inghiottito dal sacco, il Piripipeta lo chiuse velocemente e cominciò a menar legnate sul sacco, a più non posso. Dopo un’ ora di bastonate il Piripipeta era stanco ed il diavolo dolorante, si lamentava e chiedeva pietà. Teresa, impietosita, implorò clemenza per il demonio. Decisero di lasciarlo tranquillo nel sacco fino alle luci dell’alba.
Al mattino Il viceré e un bel gruppo di guardie che lo precedevano, salirono titubanti le scale della torre e rimasero esterrefatti quando videro il Piripipeta e Teresa vivi e vegeti: “ma come vi siete salvati?. Il diavolo è venuto?”
Il Piripipeta indicò il sacco e disse: ” il diavolo è lì dentro, non sentite come si lamenta” tutti arretrarono per la paura. Piripipeta disse al diavolo che lo avrebbe lasciato libero se si fosse impegnato a non fare più del male a Teresa e a non farsi più vedere nei borghi vicini. Il diavolo non rispose subito, ma una decina di legnate sul corpo già martoriato lo indussero a accettate la richiesta del Piripipeta, sottoscrivendo, il giuramento su un pezzo di pergamena, che era stata infilata nel sacco. Riavuta la pergamena debitamente compilata, il Piripipeta aprì il sacco e sotto gli occhi di tutti il diavolo si buttò dalla finestra giù nel fiume e scomparve.
Nel frattempo la voce di quanto era accaduto si sparse velocemente in tutto il borgo ed in quelli vicini ed arrivò anche alle orecchie di Tommaso, che poté ricongiungersi con la sua Teresa. Il Piripipeta fu portato in trionfo e si fece festa di giorno e anche di notte, nessuno aveva più paura ad uscire. I festeggiamenti si protrassero per una settimana. Ricevette il compenso dal viceré, che a fatica nascondeva la sua contrarietà per come erano andate le cose e Teresa, felicissima per essersi salvata ed aver ritrovato il suo Tommaso, lo ringraziò con un bacio affettuoso e lo salutò.
Tanta fama arrivò al prevosto, che si rivolse al Piripipeta, convincendolo che solo lui era in grado di dare una mano per sconfiggere la peste che a Milano stava mietendo migliaia di vittime. Il Piripipeta, con in tasca una lettera di accompagnamento per l’arcivescovo, si avviò con il sacco in spalla verso Milano. Il Piripipeta voleva vedere Monza prima di recarsi a Milano, aveva inteso di brutte storie, che accadevano in città, spesso i forestieri venivano incolpati di essere degli untori, decise così di prendersela comoda. Non abbandonò le strade maestre, salì l’Adda fino a Paderno, da li volse verso Montevecchia si diresse ad ovest per arrivare al Lambro ad Albiate, piegò verso sud seguendo i borghi lungo il corso del fiume e arrivò a Monza.
La città sembrava deserta, le porte delle case erano inchiodate con assi di legno, il Piripipeta non riusciva ad avvicinare nessuno per chiedere informazioni, tutti scappavano. In una piazza incontrò quattro brutti personaggi, detti monatti, che guidavano un carro carico di persone. Buttate sopra in malo modo, peggio dei covoni di grano, con gli abiti a brandelli, alcuni gemevano, ma i più sembravano morti. “Non sappiamo in quale lazzaretto portarli”, dissero i monatti al Piripipeta’ e fra poco dovremo portarli fuori in Brianza, per seppellirli e piantarci una croce sopra per indicare il lazzaretto. “Ma tu dove stai andando, non vedi che tutti scappano”, quando il Piripipeta disse loro che voleva vedere il Duomo, questi gli dissero che era matto e scuotendo la testa se ne andarono con il loro macabro carico. Il caldo rendeva ancora più irrespirabile l’aria, varcò la porta del duomo, dentro solo una pesante oscurità, tagliata dalla luce del sole pomeridiano che filtravano dalle finestre. L’ombra della sua figura si stagliava dal portone fino al centro della chiesa. La luce di una finestra illuminava sull’altare centrale due strane figure, sembrava si muovessero, più si avvicinava, più aveva la confermava che fossero in due, due brutte figure. Una era tutta ossa con un mantello nero e con in mano una falce, l’altra gli pareva di averla già vista da qualche parte. Una specie di caprone con la coda e le corna, ma certo, era il diavolo che aveva bastonato nella torre di Trezzo o un suo parente.
Invece era proprio lui. Il diavolo, appena riconobbe il Piripipeta cominciò ad indietreggiare, la morte intervenne: ” ma cosa fai, te ne stai andando adesso che c’è ne un altro da spartire, dai giochiamocelo a dadi”. “Lascia stare” disse il diavolo, quello è un tipo da evitare, Oggi abbiamo già fatto il pieno, lascialo stare che quello ti rompe le ossa”! La morte che non aveva mai accettato compromessi, considerò un insulto le parole del diavolo e si avvicinò roteando la falce verso il Piripipeta, lui con molta calma aprì il sacco e pronunciò la formula: ” salta nel sacco”. Il Piripipeta chiuso il sacco cominciò a menar randellate sulle ossa della morte, tant’é che il volume dello stesso si affievolì con tutte le ossa che si depositavano sul fondo. Dalla bocca, quasi staccata dal cranio, uscì un fievole lamento: ” Basta, basta,basta, me ne vado, giuro che torno a casa mia”.
Il Piripipeta apri il sacco e caddero spargendosi sul pavimento tutte le singole ossa della morte e chiamò il diavolo per raccoglierle. Il diavolo raccattò le ossa, le mise assieme alla belle e meglio per far sì che la morte potesse camminare: ” ti avevo avvisata, lascia stare quello li è pericoloso e invece no, adesso guarda come sei conciata, ti porto a casa e così ti attaccherò meglio le ossa, ma dovrai farti un bel po’ di convalescenza”. Certo disse il Piripipeta, voi due farete parecchia convalescenza e non fatevi più vedere in giro, perché se vi incontro di nuovo, la razione di legnate sarà doppia. Uscito dal duomo di Monza, il Piripipeta si avviò in direzione di Milano cercando un luogo dove ripararsi per la notte.
Il mattino successivo il Piripipeta chiese al sacco una buona colazione, un mantello ed un largo cappello e si avviò per entrare dalla porta di Milano, aveva una missione da compiere, portare la missiva del prevosto di Trezzo al Cardinale di Milano. Arrivato in Duomo cominciò a chiedere come poteva incontrare il Cardinale, chiese aiuto a dei prelati che però erano sospettosi nei suoi confronti. Si chiedevano come costui avesse potuto attraversare metà Lombardia, arrivando a Milano e restare indenne dalla peste. Un frate, piuttosto brutto e con la gobba continuava a fargli domande in modo insistente e a volte minaccioso, il Piripipeta gli disse che avrebbe risposto alle sue domande solo in presenza del Cardinale Borromeo, venne quindi condotto alla presenza del porporato. Il Piripipeta consegnò la lettera del prevosto e raccontò tutta la storia di Trezzo e di Monza. Il Cardinale dopo aver letto la missiva, volle che Piripipeta gli svelasse la genesi dei suoi poteri, chiese ancora di soddisfare la curiosità dei prelati, che assistevano all’incontro e finalmente la cosa che più gli premeva, assistere personalmente a tali prodigi. Il Piripipeta non si fece pregare, aprì il sacco e preso di mira il frate che lo aveva assillato continuamente disse: “salta nel sacco”, il frate finì nel sacco con la meraviglia di tutti e cominciò ad urlare dalla paura, allora il cardinale pregò il Piripipeta di liberarlo e questi lo fece uscire. Il Cardinale, con tutti i prelati si fecero una sonora risata, cosa inconsueta per quell’ambiente. Poi raccontò di come la peste era arrivata in Lombardia, portata dalle truppe dei Lanzichenecchi scesi dalla Valtellina e di come si era diffusa in tutto il nord Italia. Erano anni grami, perché dove non era arrivata la peste, come a Napoli, ci aveva pensato il terremoto a mietere vittime. Il Cardinale ed il Piripipeta, ragionarono a lungo ed infine conclusero che nel sacco, si dovevano racchiudere tante nuvole. Una volta liberate avrebbero scatenato un prodigioso temporale e la pioggia caduta, avrebbe purificato la città liberandola dalla peste. Occorreva andare sulle Alpi dove c’erano le nuvole e raccoglierle nel sacco, bisognava fare in fretta. per questo il Cardinale diede al Piripipeta un anello ed una pergamena che erano dei veri e propri lasciapassare per ogni luogo della cristianità.
Il Piripipeta lasciò Milano e si avviò con una nutrita scorta di cavalieri verso il lago Maggiore e da li fino al Monte Rosa, evitando Torino dove la peste stava mietendo molte vite. Arrivato ai piedi dei monti, il Piripipeta attese il passaggio di nuvole gonfie di pioggia per dire la fatidica frase: “salta nel sacco” ed il sacco risucchiò una gran quantità di nuvole. Chiuse il sacco e tutti ritornarono di gran carriera a Milano. Il Piripipeta, il Cardinale e una cerchia ristretta di prelati e cavalieri salirono in cima al Duomo lentamente, con molta trepidazione fu aperto il sacco dal quale uscirono, immense nuvole nere che si allargarono sulla città, il loro impatto con la calura di agosto provocò tuoni e fulmini e poi come per miracolo cominciò a cadere la pioggia. I primi goccioloni sollevavano la polvere delle vie, poi la pioggia aumentò di intensità tanto da lavare la città e portare via il contagio della peste. La gente come inebetita se ne stava in piedi sotto la pioggia, chi rideva, chi piangeva, tutti erano consapevoli che il flagello della peste stava per finire. Dopo una settimana, l’erba cominciò a rinverdire, e la vita riprese. La popolazione, finalmente, con gli abiti puliti, si riversò per la città e si fece una grande festa di ringraziamento. Il Cardinale chiamo il Piripipeta per ringraziarlo e gli chiese cosa potesse fare per sdebitarsi, Piripipeta rispose che si aveva un sogno anzi due, voleva visitare la tomba di San Pietro per ringraziarlo del sacco prodigioso, desiderava poi raggiungere Gerusalemme. Il Cardinale gli donò un medaglione che raffigurava Sant’ Ambrogio e sarebbe servito da lasciapassare.
Curioso di vedere il mondo, attraversò il Po nei pressi di Pavia, girò su e giù per gli Appennini e la Toscana, si fermò parecchio a Firenze e poi a Pisa da dove, dopo circa tre anni dalla partenza da Milano, si avviò sulla via Aurelia per andare a Roma avendo come compagno di viaggio un certo Galileo. Costui possedeva un tubo con delle lenti da cui si vedevano molto più grandi la luna e le stelle. Galileo continuava ad insistere nel dire che la terra era rotonda e girava intorno al sole, allora tutti erano convinti del contrario e la chiesa non vedeva di buon occhio le teorie di Galileo. Arrivati a Roma, che era primavera, Galileo fu subito arrestato ed il Piripipeta che era con lui rischiò di finire anch’egli in prigione. Solo il dono dell’arcivescovo di Milano lo salvò da quel destino. Il Piripipeta visitò la basilica di San Pietro, scese nei sotterranei per vedere la sua tomba e quando fu vicino intese una voce che diceva:” Ricordati dell’anima, ricordati dell’anima ricordati dell’anima …”. dovette uscire per non sentire più quella voce. A Roma, tutti parlavano dell’arresto di Galileo i gendarmi si infiltravano nei capannelli della gente per arrestare chi simpatizzava per Galileo e le sue teorie, vista la brutta aria il Piripipeta si avvio lungo la via Appia per raggiungere prima Napoli e poi Brindisi ed imbarcarsi per Gerusalemme.
Per la verità se la prese molto comoda perché gli ronzavano nella testa le parole di San Pietro: “ricordati dell’anima”, ma sicuro dell’immortalità avuta in dono, era certo di non dover sottostare al giudizio Divino e questo lo rendeva tranquillo. Il clima, il sole ed il mare lo influenzarono, piacevolmente, era pervaso da una felice indolenza che lo portò a compiere viaggi, intervallati da lunghe e piacevoli soste in tutte le località costiere dell’Italia meridionale. La vita piacevole gli aveva fatto dimenticare Gerusalemme. Erano passati quattordici anni da quando aveva lasciato Roma, ed ora le terre che erano state ospitali, divennero ostili. Le popolazioni, vessate dalle esose tasse degli spagnoli, vivevano una carestia memorabile. A Napoli nel frattempo era scoppiata una rivolta, tutti urlavano in un dialetto che aveva sempre fatto fatica a comprendere, quindi per evitare di essere scambiato per uno spagnolo lasciò in fretta la città. Lungo la strada seppe che da nessun porto del meridione d’Italia salpavano navi per la paura delle navi turche che infestavano i mari, l’unico porto dove imbarcarsi per Gerusalemme era rimasto Venezia.
Risalì quindi l’Italia per arrivare a Venezia, anche qui la parlata era un po’ strana però la gente sapeva far festa, specialmente a carnevale prima della Quaresima. Fu durante il carnevale, che se la vide brutta. Aveva salvato con l’aiuto del sacco una giovane popolana da un gruppo di malviventi al servizio di un potente mercante. Costui si era invaghito della giovane fanciulla e con l’aiuto del travestimento in maschera la stava facendo rapire dai suoi sgherri, il Piripipeta riuscì a farla sparire dalla loro vista nascondendola nel sacco, quando i malviventi si accorsero di essere stati beffati, la giovane aveva già raggiunto la sua casa e ringraziò il Piripipeta. Il mercante furioso ordinò di cercare per tutta Venezia chi gli aveva mandato in fumo le sue aspettative promettendo una forte ricompensa a chi lo avesse trovato. La ricompensa aumentò il numero di persone interessate a scovarlo, egli riuscì nascondendosi nel sacco, a sottrarsi alla cattura.
Raggiunse il porto, fortuna volle che cercavano marinai e mozzi per un imbarco su una nave turca diretta a Cipro, si presentò e fu subito arruolato, anche perché di italiani che accettavano di imbarcarsi su navi turche non ce n’erano molti. Salito sulla nave si accorse che i cristiani erano trattati molto male, costretti a fare i lavori più umili ed erano anche malnutriti, il Piripipeta doveva pulire tutto il ponte della nave sempre inginocchiato sotto il controllo dei marinai turchi. Sulla nave assieme al califfo viaggiavano le sue numerose mogli ed il figlio già destinato ad essere suo successore anche se molto giovane. Lasciato il mar Adriatico la nave incappò in una brutta tempesta con onde molto alte, chi era costretto a stare sul ponte si teneva legato ad ogni appiglio utile per non cadere in mare. Il figlio del califfo per curiosità usci dalla sua cabina ed un’ondata lo buttò in mare, suo padre e tutti i marinai disperati tentarono di calarsi con le cime per riprenderlo ma ogni tentativo falliva Il Piripipeta si offrì volontario, chiese di essere calato in mare legato ad una cima portandosi con se il suo sacco, le onde lo sballottavano da tutte le parti ed era difficile stare a galla. quando fu vicino al ragazzo e sicuro di non essere visto dalla nave disse la frase “salta nel sacco” e fu così che il figlio dei califfo finì recuperato nel sacco. Il Piripipeta gridò verso la nave di tirare la cima quando fu vicino alla parete dalla nave liberò il ragazzo che si arrampicò sulla stessa e fu tirato in salvo dai marinai turchi che non si preoccuparono minimamente per il Piripipeta, che fu recuperato dai marinai cristiani.
Il califfo fu però riconoscente, si fece condurre il Piripipeta, ordinò ai suoi servi di cambiargli l’abito e di far asciugare il sacco come aveva chiesto il Piripipeta. Lo fece accomodare alla sua tavola e dopo averlo rifocillato lo ringraziò davanti a tutti i suoi generali e gli chiese in che modo volesse essere ripagato per il coraggio dimostrato nel salvataggio di suo figlio. Il Piripipeta chiese tre semplici cose: un miglior trattamento per tutti i marinai e per se un salvacondotto in tutti i territori dell’impero ottomano ed un mezzo di trasporto per non andare a piedi. Durante tutto il tempo che passò sulla nave, rimase in compagnia del figlio del califfo, scambiandosi informazioni ed idee sul mondo, la nave allungò il suo percorso fino al porto di Tripoli, il Piripipeta scese e fu salutato da tutti. Con in tasca il lasciapassare e forte del mezzo, carico del necessario per il viaggio fino a Gerusalemme, si avviò.
Viaggiando e dormendo sul carro, da Tripoli proseguì per Damasco, poi arrivò a Nazareth, seguì il fiume Giordano per deviare poi verso Gerusalemme. A Gerusalemme vendette il carro ed i cavalli ad un oste ed ottenne il permesso di pernottare per un mese nella sua osteria dalla quale, tutti i giorni partiva per visitare i luoghi sacri. Si sentiva però ormai vecchio e stanco di vivere. Erano giorni che raggiunto il Santo Sepolcro cercava di sottrarsi alla sorveglianza dei monaci, che proteggevano il luogo sacro. Voleva rivolgersi al Signore, in solitudine per sciogliere quel legame con l’immortalità, che lui stesso aveva voluto, ma che ora era diventato troppo pesante. Per riuscire nel suo intento, pensò bene di nascondersi nel sacco in attesa della notte. Quando, quasi tutte le lampade ad olio, furono spente e non si sentiva più nessun rumore, il Piripipeta uscì dal suo sacco e mettendosi in ginocchio cominciò a pregare Gesù: “Signore” gli disse, “oramai sono vecchio, ho passato tanti anni felici, ho girato il mondo, ma i tempi e le persone sono cambiati. So di aver peccato di presunzione chiedendo a San Pietro di non morire mai quando lui mi pregava di pensare all’anima. Dammi la possibilità di andare a cercare il mio posto nell’ aldilà!” Il Signore gli disse: “Piripipeta, Piripipeta sei stato presuntuoso per l’immortalità che hai voluto ed ora l’hai ammesso. Devo dire che hai speso tutta la tua vita a fare del bene agli altri quando potevi pensare solo a te stesso, per questo ti voglio aiutare”. Dal crocefisso Gesù porse una chiave al Piripipeta e gli disse: ” Prendi questa chiave e incamminati nel cunicolo che sta dietro il confessionale in fondo alla chiesa. A metà del passaggio troverai un foro contornato dai simboli del principio e della fine, infilaci la mano gira la chiave e ti troverai nell’aldilà. Attento però Piripipeta perché è una scelta senza ritorno e non sai dove ti porterà!”
Il Piripipeta però era deciso, rinfrancato dalle parole di Gesù che non lo aveva giudicato male, spostò il confessionale e dopo essere entrato nel cunicolo, lo risistemò. All’interno vi era solo un filo di luce, a tentoni con le mani, riuscì a trovare il foro con i simboli. Titubante infilò il braccio nel forò e girò la chiave nella serratura, con un gran scricchiolio la parete di pietra si mosse, il necessario per far passare una persona. Non appena fu entrato la parete si richiuse. Cominciò a guardarsi in giro per capire dove andare, su un grosso masso erano incise tre indicazioni: una freccia verso il basso indicava l’inferno, una, in diagonale, indicava il purgatorio ed una freccia verso l’alto il paradiso. Il Piripipeta si fece coraggio e decise di incamminarsi subito verso l’inferno, attraversò un cancello privo di difese, si trovò così davanti ad un fiume. Si fece prestare una barca da un vecchio diavolo, per attraversare il corso d’acqua. Arrivato sull’altra sponda sentì improvviso un calore che andava aumentando sempre più ed in lontananza si udivano grida strazianti che facevano accapponare la pelle. In fondo all’antro si vide un enorme portone in ferro, reso rosso dal calore che proveniva dall’interno. A fianco del portone vi era una grata ed il Piripipeta usò un sasso per percuoterla senza scottarsi. Appena aperta, dalla grata uscì una fiammata e subito comparve un diavoletto che rimase sorpreso nel vedere qualcuno che bussava alle porte dell’inferno. “Come mai se qui, ti hanno perso per strada nell’ultima infornata? Qui non teniamo contabilità uno in più non è un problema, aspetta però che chiedo al capo dove metterti” . Il diavoletto andò a chiamare il capo che rimase altrettanto sorpreso, nella sua lunga esperienza era la prima volta che vedeva qualcuno presentarsi spontaneamente, aprì la grata e quando vide ii Piripipeta divenne più rosso delle fiamme: “Via di qui, questo non è il tuo posto e tu spranga il portone quello li non deve entrare assolutamente, guarda la mia schiena porta ancora i segni delle legnate che ho preso a Trezzo da questo individuo, da allora mi hanno degradato a portinaio, dai disposizione per riportarlo indietro”.
Il Piripipeta presentò il lasciapassare al vecchio diavolo che cacciando fuoco dalle narici lo riportò verso l’altra sponda. Nonostante dovesse risalire l’irto sentiero, tirò un sospiro di sollievo per aver evitato quel brutto posto che era l’inferno. Ritornato al bivio della roccia, questa volta prese il sentiero che saliva zigzagando in diagonale e si avviò verso il purgatorio, man mano che saliva la nebbia diventava sempre più fitta tanto che a malapena si coglievano i contorni di una strana costruzione che ricordava un secchio rovesciato. C’era una sola porta e bussò, venne ad aprire un vecchio con i capelli bianchi. ed un mantello polveroso che lo copriva dalla testa ai piedi. Il Piripipeta si accertò che fosse il responsabile per l’accoglienza dei morti. Il vecchio lo rassicurò. Il Piripipeta gli chiese di verificare se lui fosse nel registro, il vecchio fece cenno di seguirlo, mentre si incamminavano verso l’archivio si sentivano in lontananza voci di gente che pregava, si lamentava e sembrava di scorgere persone che si battevano continuamente il petto tutti assieme, provocando un sordo rumore come il battere lento di molti tamburi. Il vecchio non disse una parola, gli chiese il nome, fece scorrere dei libroni pieni di polvere e fatti passare tutti i nominativi, fece cenno di no con il capo ed indicò la porta dell’uscita. Nonostante le insistenze del Piripipeta, non una parola usci dalla bocca del vecchio, che risoluto lo accompagno fuori e richiuse la porta.
Il Piripipeta tirò un sospiro di sollievo. Evitato l’inferno ed il purgatorio non rimaneva che il paradiso. Scese il sentiero fino alla grande roccia e cominciò a salire i gradini seguendo l’indicazione “paradiso”. I gradini erano talmente tanti che ogni tanto il Piripipeta doveva fermarsi per riprendere fiato, mille, duemila, non li aveva contati, tuttavia lassù l’aria era frizzante e gli sembrava di essere tra le nuvole. Alla fine arrivò in un piccolo spiazzo dove si apriva un arco fatto di fiori che formavano la scritta: Paradiso, si avvicinò e vide che a custodia dell’entrata vi era un angelo con dei registri, si avvicinò e gli chiese gentilmente di controllare se ci fosse il suo nome. L’angelo controllò un primo registro, poi un secondo ed un terzo ma il nome Piripipeta non figurava, in fondo alla lettera P del quarto libro lo trovò ma a fianco una postilla: “Chiamare San Pietro”. “Sei nel quarto libro” disse l’angelo, ma devo chiamare il “capo”, fece girare la manovella di un telefono a muro da cui uscì un suono continuo di campane ” Pronto San Pietro dovete venire qui all’ entrata”. L’angelo spiegò a San Pietro, il motivo della chiamata e riattaccato il telefono, si mise in attesa.
Quando san Pietro arrivò e vide il Piripipeta disse: “Tel chi ul baloss de Velà, tu non puoi entrare perché sei ancora vivo, io ti avevo avvisato ma tu non hai voluto ascoltarmi”. Il Piripipeta supplico San Pietro dicendo che aveva sbagliato a non ascoltarlo, gli disse che avrebbe rinunciato a tutto pur di entrare in paradiso, ma tutto fu inutile, ” io non posso fare nulla” disse san Pietro, “ma chi può aiutarti è il figlio del capo che ti ha dato la chiave, devi ritornare da Lui”.
Il Piripipeta riprese la strada nel senso opposto, si accorse che fare i gradini in discesa era più difficoltoso che in salita, con le gambe appesantite arrivò al bivio della grande pietra, si fermo a riposare e poi si infilò di nuovo nel cunicolo per arrivare al crocefisso, ma guardando fuori dal confessionale vide che era ancora giorno e ne approfittò per sdraiarsi e riposare. Quando non sentì più nessun rumore spostò il confessionale e si prostrò davanti al crocefisso. Raccontò tutto per filo e per segno spiegando che san Pietro gli aveva detto che solo Lui poteva aiutarlo. Gesù gli rispose: “te l’avevo detto che San Pietro ha la testa dura come il nome che porta, però non è cattivo, fa le cose che gli vengono ordinate” Gesù sapeva tutto della vita del Piripipeta e gli disse: ” Stai molto attento a cosa devi fare perché questa è la tua ultima occasione; ritorna su in paradiso ma non andare nel cerchio esterno, devi andare in quello centrale, dove c’è mio padre e tutti i santi che ogni tanto usano una porticina secondaria per scendere sulla terra a fare i miracoli”. Gesù gli allungò una piccola chiave e gli disse:” usa questa chiave per entrare dove ti ho detto e quando sarai entrato cerca san Pietro, lui ti dirà cosa fare.
Il Piripipeta senza perdere tempo rifece il percorso fino alla grande roccia e cominciò a salire le migliaia di gradini, girò intorno ai cerchi fino ad arrivare a quello centrale, cercò la porticina e infilò la chiave che gli aveva dato Gesù. La porta si aprì e all’interno vi era una tal luce che ci mise almeno dieci minuti per distinguere delle sagome, che pur avendo sembianze umane, sembravano fatte d’aria. San Pietro lo stava aspettando, lo prese per una mano e gli disse: ti porterò al Cospetto di Dio. tu vedrai solo luce. Lui leggerà nei tuoi pensieri e saprà se la tua rinuncia alle cose terrene è sincera. Più andavano avanti e più la luce si faceva intensa, San Pietro lo fece fermare su un trespolo, sembrava di avere il vuoto sotto ai piedi, poi gli disse: “Ora è il momento, prometti di rinunciare a tutto ciò che ti lega alla terra”. Il Piripipeta chiuse gli occhi, annullò nella sua mente tutti i ricordi e i legami col passato e disse ad alta voce “rinuncio a tutto ciò che mi lega alla terra”. San Pietro gli disse: “Dio ha letto nella tua mente, la tua intenzione è vera, solo questo conta”. In quel momento avvenne il cambiamento. Il Piripipeta si accorse che era cambiato che assomigliava agli altri, non aveva più nulla, ne il sacco, ne la pipa e neppure la chiave che gli aveva dato Gesù, “quella non ti servirà più” gli disse San Pietro, vieni ti accompagno al primo cerchio dove eri stato assegnato. Attraversarono il paradiso dall’interno fino al primo cerchio e li san Pietro lo lasciò.
Tutti i presenti gli si fecero incontro e lo circondarono, ruotandogli attorno lievi e leggeri, in segno di benvenuto. Piripipeta era molto felice, aveva ritrovato le persone che gli erano state care. I suoi famigliari, che se n’erano andati tanti anni prima, adesso erano lì con lui.