I COLONI AL SERVIZIO DEI CONTI CASATI: NOVEMBRE
Il mese di Novembre, per i coloni aveva un significato particolare, che al di là degli eccessi enfatizzati da un certo tipo di letteratura e cinema, era senz’altro decisivo nello scorrere di una vita fatta di fatiche e minime soddisfazioni.
Non generalizziamo; abbiamo visto nell’introduzione come i Conti Casati, non fossero particolarmente insensibili alle necessità dei loro coloni e crediamo, anche se i ruoli in quegli anni erano precisi e invalicabili, non fosse cosa comune assistere alla cacciata di una famiglia, dalla terra che coltivava e dall’abitazione che li ospitava senza un minimo preavviso e se non per motivi, più che seri. Ritornando al nostro Novembre, sappiamo che segnava l’inizio dell’anno colonico, con la fatidica data dell’11 Novembre San Martino, conosciuto dunque il “fà San Martin” con il significato, anche quando la spada di Damocle delle cacciata dal “podere” non era più in uso, di fare un trasloco. Segnaliamo a tale proposito, come nel contratto che in anni successivi a quelli della nostra ricerca la stessa famiglia Casati proponeva ai coloni, fissava nel mese di Marzo il momento dell’eventuale disdetta dell’accordo, da parte dei contraenti, che diventava comunque esecutiva il Novembre seguente, lasciando dunque quel preavviso necessario per trovare una nuova sistemazione. Forse per i nostri coloni, era Marzo il momento più temuto, per conoscere la sorte del loro destino.
Riprendiamo il registro delle prestazioni, che il rigoroso agente dei Conti Casati Luigi Santambrogio, che prendeva alloggio al San Martino, nella così detta “Casa Civile” in compagnia delle sorelle Carolina e Rosa compilava ed iniziamo una prima scorsa per vedere nel Novembre del 1867 e in quello dell’anno successivo, alternarsi nel prestare la loro opera una quindicina di coloni. I lavori sono tra i più disparati. Contiamo un totale di circa 40 giornate di lavoro, poteva capitare che nella stessa giornata un colono svolgesse differenti attività che determinavano una diversa mercede per una prestazione e per l’altra e dunque troviamo rubricato lo stesso colono più volte nella giornata, con mansioni differenti.
Terminate le operazioni legate alla semina del frumento, che spesso coinvolgevano le prime settimane di novembre, si rivolgeva l’attenzione verso i boschi del padrone, era il momento in cui si dovevano tagliare gli alberi, ridurli a legna da ardere o da adibire ad altri scopi, e infine pulire il bosco; era un lavoro faticoso che impegnava gli uomini per tutto il mese e a volte anche oltre. Non manca nella tradizione contadina un proverbio che scandisce questo momento: “Per la Presentazion via la vanga e foo ul resegon”, ricordando che per la festa della Presentazione di Maria al Tempio (21 novembre) si cessava di vangare e si iniziava il taglio degli alberi nel bosco, con la grossa sega detta appunto in dialetto, “resegon”. I diligenti coloni rispettosi di queste scadenze si impegnano dunque in tali lavori che vengono certificati sul registro, non ci sembra comunque che nelle consuetudini della conduzione della proprietà Casati, il Novembre fosse particolarmente “pieno” di tale attività. Scorriamo qualche viaggio a Milano verso l’abitazione cittadina dei Casati, per condurre legna da fuoco in vista dell’inverno e qualche altra giornata impiegata per portare la legna “dal prato in ortaglia”, due luoghi che identificavano al di là del significato generico che possiamo cogliere oggi, senz’altro luoghi famigliari e precipui della Arcore di metà ottocento e più specificatamente delle proprietà dei Casati.
Abbiamo ripetutamente citato la data dell’undici Novembre come capofila dell’anno colonico e dunque dal giorno di San Martino, al San Martino proprietà dei Conti Casati il passo è breve.
La pertinenza dei Casati aveva nella storica dimora il suo quartiere generale. Qui risiede il Conte Camillo, punto di riferimento della nostra vicenda. Diversi coloni che incontreremo, abitano qui, più precisamente nelle “Case Coloniche” indicate nel censimento dello “stato delle anime”, che abbiamo consultato nell’archivio parrocchiale di Arcore. Stabili che erano ben distinti dal palazzo nobile che affondava le sue origini nell’antico convento benedettino e che descriveremo nell’approfondimento, a cui rimandiamo.
Conosciamo i coloni residenti al San Martino, sono quattro, vivono con le loro famiglie. Partiamo da Gaspare Crippa, le sue prestazioni sono di gran lunga le più numerose, possiamo pensare che il suo ruolo e le giornate di lavoro prestate non siano tutte pertinenti alle “giornate appendizie” previste dal contratto di colonia, ma possano configurarsi sotto un’altra forma di collaborazione.
Nel 1867 ha 43 anni, è nato il 6 Gennaio del 1824 al San Martino, è il secondo nato di quell’anno ed il parroco Giuseppe Vismara certifica di averlo battezzato il giorno stesso in Sant’Eustorgio. E’ sposato con Brioschi Angela che viene da Oreno ed è più giovane di quattro anni, non hanno figli. Il Crippa vive sotto lo stesso tetto, con tutta la sua famiglia d’origine, due fratelli sposati con le rispettive famiglie ed altri 3 fratelli ancora celibi, solo una sorella sposata ha lasciato la famiglia. Il padre Natale è morto anni prima e sopravvive la madre Mara Mosca che ha 64 anni. In totale il nucleo famigliare è composto da 11 persone che concorrono alla coltivazione dei campi che gli sono assegnati.
Il secondo colono è Carlo Malacrida, è nato nel 1810 sempre al San Martino ha dunque 57 anni. Sposato con Sala Angela anche lei di Arcore, ha 52 anni, hanno avuto 5 figli, una figlia risulta deceduta. Si erano sposati nel 1835, e dall’atto di matrimonio sappiamo che l’Angela è ancora minorenne e dunque serve l’assenso di suo padre, che viene concesso. Notiamo come in altre registrazioni di matrimoni, il parroco si trova nell’impossibilità di raccogliere le firme dei contraenti perchè “illeterati”. Sposi e testimoni sono identificati come contadini. Passiamo alla famiglia di Giuseppe Penati è nato nel Luglio del 1808, anche lui al San Martino, il suo “compadre” viene da un po’ più lontano è il “molinaro” Giuseppe Cazzaniga che sta al Molinetto, altra proprietà dei Giulini-Casati. E’ sposato con Sala Giuditta, più vecchia, si fa per dire, di un anno ed hanno 5 figli.
Si erano sposati nel 1831 entrambi minorenni, dunque era servito l’assenso dei genitori. Il loro primo figlio Paolo è nato nel 1832 e come ci lascia scritto il parroco Don Vismara, caso evidentemente non comune, assiste al parto la levatrice di Arcore signora Bellati. Ora il figlio è sposato e ha a sua volta due figli, tutti convivono ancora nella stessa casa. Con probabilità a partire dal mese di Aprile del 1868, saranno i parenti, forse il fratello Franco o Francesco, con i figli dello stesso Giuseppe, a portare avanti le giornate appendizie previste. In effetti il 28 Marzo di quell’anno dobbiamo registrare la morte del Giuseppe Penati, che viene sepolto il giorno dopo, le cause di morte sono indicate come conseguenza di “pleuritide”, anche se la morte sembra sopraggiungere abbastanza improvvisa tanto che il curato deve registrare che non si ebbe tempo per somministrare i Sacramenti, in ogni caso furono 4 i sacerdoti che ufficiarono le esequie e ben 8 l’ufficio funebre, pace all’anima sua, aveva 60 anni.
Nell’anno successivo 1868-69 nel registro non appare più il Giuseppe Penati ma i lavori sono appannaggio di Franco Penati e nipoti. La lista degli abitanti del San Martino si completa con il Villa Angelo che in due stagioni conta solo due giornate di lavoro. E’ nato nel 1811 si è sposato nel 1833 con Sala Maria Antonia che abitava alla cascina “Franceschetti” . Testimone da parte dello sposo, è Giuseppe Ferrari contadino ma anche sacrista in Arcore, si segnala come la sposa oltre ad essere minorenne è orfana di padre, dunque sottoposta a “vincolo pupillare”, sotto la tutela della pretura di Monza che fornisce l’autorizzazione necessaria, stessa cosa deve fare il padre dello sposo, anch’egli minorenne.
Dal matrimonio nasceranno ben 11 figli decretando un primato non indifferente per la famiglia. Negli anni della nostra ricerca l’Angelo Villa è rimasto vedovo, mentre sembra ancora vivere in famiglia un vecchio zio, Cesare Villa, nato nel 1794 ultrasettantenne una vera rarità. Un’umanità variegata, con caratteristiche che si ripetono nelle popolazione di quegli anni, caratterizzata da una mortalità elevata, specialmente in tenera età e soprattutto una media di vita che confrontata oggi, impressiona per l’estrema brevità.
Una vita oltre che corta anche dura, attendeva i coloni. Gli abitanti del San Martino unitamente alla ventina di altri contadini al servizio dei Casati, non avevano certo il tempo e la voglia per riflettere sulla caducità della loro esistenza, vediamo dunque quali incombenze erano loro assegnate dall’agente di casa, il Santambrogio.
La grande parte dei lavori si configurano col trasporto da un luogo all’altro di persone o materiali.
Numerosi i viaggi per le esigenze personali dei Casati, tanto che come tali vengono rubricate e dunque non ci lasciano intendere appieno l’attività svolta, la formula è quella tipo: “a condurre effetti padronali”. In questa veste troviamo spesso il Bugatti Fedele, che conosceremo più nel dettaglio il prossimo mese, impegnato ad andare a Milano con la biancheria, per una incombenza ben cadenzata nel tempo. Altre volte i coloni devono prestare servizio, facendo viaggi per “l’amministrazione”.
Crippa Gaspare sembra essere essenzialmente impegnato come “autista di casa” in effetti lo troviamo spesso in viaggi per “uso padronale” in località diverse, un’altra volta consuma: “una giornata con il fattore” ed ancora, confermando il ruolo d’autista: “per uso padronale a Monza con il cuoco e a Nova con la domestica”. Abbiamo parlato di lavori un po’ più impegnativi, come il trasportare legna, aggiungiamo ora i vari trasporti di materiale legati alle esigenze di manutenzione delle diverse proprietà. Infine abbiamo indicazione di alcune giornate dedicate a lavori manuali, legati alle necessarie manutenzioni. Le troviamo indicate come: “per riparazioni in Corte Giulini” o ancora “ per riparazioni in corte della cascina Ca”, luoghi che unitamente alle altre proprietà dei Casati, cercheremo di conoscere nei prossimi mesi. Tra le ricorrenti attività, visto come il trasporto fosse fatto esclusivamente con cavalli, incontriamo prestazioni sussidiarie alla tenuta di questo animale, tali come andare a prendere paglia oppure disfarsi del letame prodotto, volte indicato anche come “concio”, parola che sottintende alla funzione di concime a cui era destinato. Ci soffermiamo su questa indicazione, il giorno 19 Novembre 1868 due coloni il Crippa Gaspare, che abbiamo già incontrato e il Carlo Colzani, sono impegnati per “prendere letame alla Folla”.
Incuriositi abbiamo cercato d’identificare questa località, che non figura nelle proprietà dei Casati. La località è posta al Peregallo sulla strada che scende verso Biassono, dove incontriamo i ruderi di una passata ed ultima attività industriale, legata alla chimica, che fu interrotta nel 1992. Gli stabili o quello che resta, sono in attesa di una bonifica che tarda ad arrivare e che infine con ogni probabilità si tradurrà nell’ennesima speculazione edilizia. La prossimità al corso d’acqua del Lambro ha legato il luogo, da epoche lontane, allo sfruttamento dell’energia generata dal fiume per impiantarvi nel tempo, differenti attività produttive tipiche. Con un percorso a ritroso segnaliamo l’esistenza della Filatura meccanica di cotone della Fola, di proprietà Stucchi e Fumagalli prima e Dell’Acqua dopo, che operava già dal 1840; nel 1875 vi lavoravano 400 persone. Fu chiusa nella seconda metà degli anni 50. Con l’attività di “follatura”, che si svolge nelle fole o folle, si intende quel processo meccanico che appunto sfruttando normalmente l’energia prodotta dal fiume, permette attraverso un maglio di compattare i tessuti, solitamente di panno di lana. Conosciamo differenti luoghi lungo i corsi d’acqua e naturalmente sul Lambro che hanno conservato questo toponimo e che erano legate all’attività illustrata.
La particolarità delle “Folla del Peregallo”, l’abbiamo scoperta, come spesso accade casualmente, nello spulciare gli atti relativi ai ricorsi degli abitanti di Ornago che nei primi anni del ‘700, cercavano di convincere la curia milanese sull’autenticità dei miracoli che l’acqua che sgorgava nelle vicinanze del futuro santuario delle Madonna del Carmine produceva, ci siamo imbattuti in una testimonianza di un “peregallese”, Antonio Maria Osculati, ha 33 anni, informa di lavorare alla “Fola della carta” al Peregallo, queste le parole della sua deposizione “il mio mestiere è tendere alla folla della carta”. Quindi l’attività originaria dell’insediamento che abbiamo voluto indagare, era la produzione di carta che appunto con l’ausilio delle apparecchiature necessarie, compattava l’impasto per produrre la carta. La gestione della “folla” per gli anni del catasto teresiano era appannaggio dell’ Osculati, anche se la proprietà era delle Madri di San Paolo di Monza.
Proseguendo, tra le attività che nel mese di Novembre occupavano i coloni negli anni che stiamo descrivendo e riferendoci sempre ai personaggi che abbiamo conosciuto, incontriamo un nuovo spunto che ci piace raccontare. Abbiamo trovato in “rete” uno scritto autografo del Santambrogio risalente ad anni successivi a quelli della nostra indagine, è il novembre del 1881, quando indirizza ad un “caro collega” la richiesta di alcuni capponi, da consegnare al cuoco.
Era questo il mese in cui si trasformavano i galli nei capponi destinati all’ingrasso per le mense natalizie. La castrazione dei galli avveniva all’inizio di novembre e nell’occasione si procedeva anche al taglio della cresta, l’intervento non era privo di rischi, dato che i contadini usavano come disinfettante la sola cenere. Nelle settimane successive, i capponi erano sottoposti ad una alimentazione forzata che li avrebbe ingrassati a dovere.
Probabilmente l’agente dei Casati provvede per tempo per i bisogni del Natale seguente, non confidando sulla consuetudine di ricevere in regalo dai coloni i fatidici capponi. Leggendo poi il contratto di colonia, relativo ai primi anni del novecento fra i discendenti del Conte Camillo ed altri coloni e ben evidente la disposizione relativa agli “appendizi” ed in particolare ai capponi, ecco quanto prevede il contratto: “Gli appendizi sono calcolati in ragione di ogni dieci pertiche milanesi e sue frazioni nella misura di un cappone da Kg. 1,60, di un pollo da Kg. 0,80 e di una dozzina d’uova; il colono sarà obbligato a pagarli in natura; ove però si convenisse di tradurli in grano o in denaro, saranno valutati Cent. 60 per ogni dozzina d’uova, L. 0,80 per ogni pollo e L. 1,60 per ogni cappone, corrispondenti a Cent. 30 per ogni pertica milanese.” Era probabile che ormai i coloni preferissero fare riferimento al corrispettivo in denaro, piuttosto che pagare in natura, da qui la necessità del Santambrogio di reperire altrove i capponi. Concludiamo con una nota di colore che rintracciamo sul libro del Motta “Dal tec in su” ancora in tema di capponi.
La festa di “Quater Curunaa” e nota a pochi.
Erano i martiri: Severo, Severino, Carpoforo e Vittorino, tutti soldati, i quali avrebbero ricevuto il martirio per aver abbracciato la fede cristiana. La loro festa cade l’8 di Novembre, anche se per i contadini quel giorno segnava l’inizio della “nuvena di capòn”, nella quale molti coronati (i galli con tanto di cresta) venivano privati della loro corona e degli altri attributi caratteristici del gallo per diventare capponi da ingrasso. La denominazione della festa (sia ben inteso!) non ha niente a che vedere con i capponi. Però … Ecco che cosa succedeva nelle nostre campagne durante i famosi nove giorni. La “nuvena di capon” era quel periodo nel quale “l’accapponatrice” trasformava i galletti in capponi.
La “sanagai” letteralmente “colei che cura i galli” sapeva del pericolo derivato dall’intervento fatto senza precauzioni igieniche particolari e diceva, anche a sua giustificazione: “Vun di quater ghe pruvedera!“, (uno dei quattro santi provvederà) Era un’allusione, per giunta piuttosto irriverente. C’era anche una canzone che narrava del pianto delle galline di fronte a tanta strage, ma la “sanagai” non se ne curava e diceva: “Lur ghe n’hann assee de vun a soci”, (Loro ne hanno abbastanza di un solo gallo condiviso) Se questo è folclore, ci sembra giusto averne parlato.