Alberto da Arcore

Lo storico Dozio nel dare alle stampe il suo volume “Notizie di Vimercate e sua Pieve” nel 1853, scrivendo di Arcore menzionava un mitico Alberto da Arcore della  famiglia dei Valvassori d’Arcore, perito valorosamente nel 1237 a Cortenuova nel bresciano (nel testo del Dozio troviamo scritto 1257, pensiamo ad un refuso). Pochi  conoscono questo episodio storico, così indietro nel tempo, e ancora meno numerosi sono senz’altro quelli che hanno mai sentito parlare dell’Alberto da Arcore. Tonino Sala ha voluto indagare su questo arcorese di 800 anni fa e sulla base delle notizie storiche ha ricostruito le vicende che portarono alla morte del coraggioso, aggiungendo, frutto della sua fantasia e inventiva, il mesto ritorno della salma nella natia Arcore. 

Iniziamo con lo sfogliare la pagina del Dozio...

Vediamo ora di saperne di più, sulla Battaglia di Cortenuova...

Così, tra i 4000 morti, da parte delle truppe dei comuni lombardi, dobbiamo contare anche Alberto da Arcore, che pietosamente viene ricondotto alla sua famiglia, i Valvassori d'Arcore...

Due parole su come, verso la metà del Duecento, poteva essere Arcore e dintorni...

Arcore – L’impianto medievale:

Boschi estesi coprono le colline a nordovest, le coste del Lambro e i confini territoriali del paese verso sud e verso est.
Nel piano, boschi di riviera, delimitano i rami delle Molgorane, che scorrono in un letto profondo circa 3-4 braccia rispetto al livello del terreno e si riuniscono a formare un unico corso all’ingresso dell’abitato dove alcuni ponti li attraversano. Modesti boschetti cedui definiscono le proprietà e seguono i bordi delle strade. Qualche impaludamento, generato dal ramo della Molgorana che scorre al bordo delle colline, causa ristagni e acquitrini. I pochi terreni messi a coltura inframmezzano aree lasciate a pascolo o a brughiera.

 

Le strade. L’impianto stradale che attraversa il territorio non è certamente a reticolo; solo sul confine est, il residuo della centuriazione evidenzia qualcosa di geometrico (tra san Fiorano, Oreno e Velasca tracce evidenti di rettilinei solcano i terreni agricoli, e in qualche antico sentiero affiorano ancora i resti del fondo fatto di cocci) per il resto l’andamento viario sia del paese che degli accessi è un susseguirsi di curve e giravolte a seguire i “paleo-solchi” delle Molgorane.

Nella mappa odierna il tracciato delle Molgorane, che ancora oggi, con andamento in parte deviato, (Largo Arienti), attraversano il sottosuolo di Arcore.

In prossimità del Largo citato, alla confluenza dei due rami, la probabile collocazione del castello dei Valvassori d’Arcore

L’ipotesi sulla collocazione è avvalorata, oltre che dalla tradizione popolare che indica come “zona del castello” quella parte di Arcore compresa tra via Abate d’Adda e via San Gregorio, da quanto riportato sulle mappe del Catasto Teresiano (1722) che indicava l’odierna via Monte Grappa come “Strada del Castello”. 

In queste due fotografie, scattate da Carlo Bestetti nel 1962, possiamo apprezzare attraverso le due viste, la prima ripresa da via Piave e la seconda da via Abate d’Adda, il complesso della cascina Morganti nota anche come “Curt di Batof”, che sorgeva sull’attuale largo Arienti. Possiamo ipotizzare la costruzione quale ultimo retaggio di ripetuti rimaneggiamenti dall’antico Castello. Segnaliamo nella prima fotografia, sull’angolo di sinistra in alto, la presenza del vano di una finestra “ad arco acuto”, particolare che potrebbe rimandare ad un resto di una possibile torre del maniero.

Attraverso le fotografie riprodotte, e sulla scorta della documentazione relativa al percorso dei corsi d’acque della Molgorane, Tonino Sala ha “schizzato” le due viste proposte del Castello dei Valvassori d’Arcore, così come poteva presentarsi in quel 1237, quando Alberto d’Arcore vi fu condotto ormai cadavere…

Il racconto

Fatta la curva, dove iniziava la leggera discesa che conduceva al castello, il carriaggio, trainato da un mulo, veniva giù lentamente lungo l’acciottolato che costeggiava l’argine della Brigolana. Seduto sulla stanga a gambe penzoloni Orbizzo teneva le briglie e pungolava l’animale con un ramo di salice. Alcuni uomini a cavallo lo scortavano.

 

Dalla spalliera dell’argine dove stava insidiando le ultime rane Ottone alzando lo sguardo vide il movimento e urlò verso il ponte che immetteva al cortile:

– Arrivano!

Dalla pusterla uscì la guardia posò l’alabarda e mise bocca al corno cavandone una specie di muggito prolungato: nelle alte stanze Adelberto e Tuniza si abbracciarono avviandosi verso la scala che dava sull’androne del cortile. Si aprì una finestra che dava sulla via e si affacciarono la serva e il medico; dal fossato la lavandaia risalì gli scalini di mattone e venne sulla strada; lo stalliere smise di strigliare il morello, tenuto per la cavezza dal garzone, e uscì sul ponte; i ragazzini smisero i loro giochi e corsero verso il carro che si avvicinava. Le quattro guardie si rassettarono, afferrarono picche e spadoni e si prepararono allo schieramento d’onore; dalla cucina, le donne che stavano allestendo per il pranzo vennero al parapetto del loggiato che dava sul cortile; il tramestio mise in animazione i cani che iniziarono a correre abbaiando verso l’esterno.

Il carriaggio passato il ponte entrò lentamente nella corte, Orbizzo saltò a terra, fermò e tenne il mulo per la correggia pendente dal morso; gli armigeri della scorta smontati dai cavalli affidarono gli animali allo stalliere e si affrettarono attorno al veicolo dal quale vennero rimossi i teli di copertura. Le guardie d’onore deposte le armi si avvicinarono anch’esse; dall’androne uscirono Adelberto e Tuniza sostenendosi l’un l’altro; Lanfranco, il capo degli armigeri che avevano scortato il carro, si reggeva in piedi a malapena, con gli abiti sbrindellati, l’armatura slabbrata e ammaccata e le braccia ancora coperte da sangue raggrumato, si avvicinò loro, li strinse in un solo abbraccio baciandoli sulle guance mentre singhiozzando mormorava, quasi tra sé:

– Era circondato da una decina di saraceni!… si è battuto come un leone… eravamo troppo lontani nella battaglia… siamo stati respinti… per difenderlo… da quindici che eravamo per portarlo fuori dalla mischia siamo rimasti in quattro… ah, quei bergamaschi traditori…

La salma giaceva sul pianale del carro, coperta da qualche indumento, ancora intriso del sangue suo e dei saraceni, che seccando formava delle macchie scure; gocce di siero acquoso giallastro ne disegnavano la sagoma sul fondo del telo sul quale giaceva; tagli, scarificazioni profonde appena orlate di rosso e tumefazioni blu-verdastre ne deturpavano il candore livido.

Il carpentiere e il fabbro, usciti dall’officina dietro le stalle, vennero ai piedi del carro, quattro uomini sollevarono il telo per le cocche e vi depositarono il corpo. Sotto l’androne era già stato predisposto un catafalco sul quale fu appoggiata la barella. Arrivarono alcune donne reggendo abiti, addobbi e un secchio per i lavacri, la salma era pronta per l’esposizione.

Intanto al portone d’ingresso, dalle corti del paese e dalle contrade già cominciavano ad affluire, riempiendo man mano il cortile, parenti, amici e conoscenti, massari, aldi e servi che venivano a rendere omaggio alla famiglia e al morto. La guardia d’onore oltre a scortare il catafalco era impegnata a regolarne il flusso e a tenere libero l’accesso.

Poco dopo, su alcune lettighe portate da muli e scortate da un piccolo gruppo di armati, arrivarono al ponte la moglie del defunto, coi giovanissimi figli e la madre di lei. Discesa dalla lettiga, la vedova con al seguito la madre e i figli formò un mesto corteo verso l’androne dove a lato del catafalco, su un leggero rialzo i genitori del morto stavano su due poltrone curiali a ricevere gli ossequi e le condoglianze dei visitatori: si alzarono volgendosi verso la nuora, visibilmente angosciata, che si lasciò cadere in ginocchio, abbracciando le gambe di Tuniza. Adelberto la sollevò prontamente. Sospiri, lacrime, lamenti, abbracci stretti da togliere il fiato furono scambiati fra i componenti il gruppo.

Da Milano, per la strada reale, giungeva il podestà Macassola, a cavallo, con le sue guardie.

Da Vimercate, a dorso d’asino, il prevosto, Guglielmo dei valvassori di Oldaniga, coi cappellani di Bernate, del Bruno e di Arcore, erano venuti al paese. La processione vedeva ora entrare le benedettine dei conventi di San Martino e di Sant’Apollinare portando ceri accesi, reso omaggio alla salma e ai parenti si erano poi disposti intorno al catafalco. I frati di Oreno, appena insediati dopo la donazione del Castellazzo fatta loro dal Cavaliere del Bruno, cognato del quondam prevosto Tedaldo dei Valvassori di Oreno, vennero, con lo stesso Cavaliere, a rendere onore alla famiglia e suffragio al caduto.

Anche gli Umiliati infagottati nelle loro grezze lane biancastre e nere, poco dopo, dai loro laboratori sotto i Ronchi, fecero la loro apparizione, passarono salmodiando il ponte e si collocarono sotto l’androne ai lati del catafalco.

Il console, il postiere (l’incaricato della raccolta della gabella del sale), e gli ottimati, si presentarono nel cortile in pompa magna con le insegne delle loro cariche portate da giovani garzoni, fecero le loro riverenze e si disposero a un lato dell’ingresso.

Non mancò dai vici e loci del circondario il resto del parentado.

Per dare inizio alla cerimonia funebre si aspettava solo l’arrivo dei rappresentanti della Lega e del feudatario. Poco dopo, preannunciati da un gran movimento, uno stuolo di cavalieri si fermò di fronte all’ingresso del ponte, smontarono, si ricomposero a corteo, entrarono in cortile e inquadrati marciarono verso il luogo dove era stata esposta la salma. Col Capitaneo da Vimercate, avevano viaggiato dalla Valsassina, dove avevano trovato riparo, condotti da Pagano, dopo lo scontro con gli imperiali, con loro erano alcuni dei capi scampati alla battaglia: il da Monza, il Terzago, il della Torre con le loro scorte armate. I genitori di Alberto andarono incontro e nel silenzio totale si scambiarono abbracci, poi al gruppo si unirono anche Lanfranco e i suoi compagni: ognuno aveva qualcosa da raccontare sull’agguato, sulla perdita del Carroccio, sull’interminabile lista dei deceduti, mentre già si facevano propositi di rivalsa.

Risaliva ai Liguri, agli Etruschi e via via a Celti, Romani e Longobardi l’uso, non dimenticato, di onorare il morto offrendo cibarie ai partecipanti la veglia. Nelle capaci cucine del castello uno stuolo di donne si era affaccendato fin dalle prime ore del mattino mondando, impastando, uccidendo, spellando e cocendo; una lunga tavolata era pronta nel salone interno. Non si sarebbe trattato di un vero e proprio banchetto: ognuno avrebbe consumato qualcosa in una comunanza che legava i vivi al morto. Il momento conviviale non mancava del contorno di chi avrebbe, dalla parlera, esaltato i meriti, le qualità fisiche, morali e il valore guerresco del defunto Alberto d’Arcore.

Una guardia salita sulla loggia mise bocca al corno lanciando il segnale di inizio della cerimonia. Si mossero per primi Adelberto e Tuniza ai quali si accodarono in un preciso ordine gerarchico, personalità, parenti, amici, armati e via via tutti gli altri. Quelli che non avevano trovato posto alla tavola sarebbero stati serviti direttamente dalle fantesche. Religiosi e clero non si mossero, rimasero nell’androne intorno al catafalco: solo dopo le sacre cerimonie avrebbero avuta la loro parte in un convivio più intimo col castellano.

Il simbolo di celebrazione di fraternità e di condivisione fu dato da una capace coppa, fatta girare e rabboccata alla necessità, dalla quale ognuno beveva un piccolo sorso, si cominciò poi a consumare quanto preparato sui tavoli.

Si levò a parlare Lanfranco, scudiero e amico di Alberto:

È triste essere qui oggi a narrare la vicenda e a tessere l’elogio funebre del compagno col quale sono cresciuto e ho condiviso i giochi, le scorrerie della fanciullezza, i castighi, le punizioni dai precettori, le veglie invernali al caldo delle stalle nell’ascolto delle storie dei nostri avi, le cacce nella foresta, la scoperta dell’amore, le sfide cavalleresche e infine quest’ultima avventura.

La sera del 26, convinti che i ghibellini, avevessero smobilitato, per l’approssimersi dell’inverno, ci eravamo accampati, dopo due giorni di cammino nei pressi di Pontoglio, per superare il fiume, la mattina dopo, e dirigerci anche noi verso casa. Nonostante la tensione si fosse allentata, la defezione dalla Lega dei Bergamaschi imponeva prudenza nel tenere celato il movimento della truppa. Disposti lungo l’argine gli uomini avevano passato la notte senza accendere fuochi; alcuni pescatori, venuti alla riva cercavano di barattare il loro pesce. Mi sembrò di riconoscere, nel gruppetto che disputava, Gottardo, un mercante di Martinengo col quale la mia famiglia aveva una lontana parentela. Lo vidi stringere la mano al pescatore, scendere alla riva, montare insieme su una barca, afferrare i remi e risalire il fiume sotto costa sparendo nel buio.

Nella notte furono gettate passerelle sul guado verso l’altra sponda e all’alba iniziò il passaggio. La lunga fila degli armati, rallentata dal guado, doveva concentrarsi a un cascinale, poco oltre il passaggio, per riassumere lo schieramento prima di continuare verso Cortenuova. La marcia procedeva per sentieri attraverso i campi su un terreno piano inframmezzato da boschi.

All’improvviso, dagli alberi poco oltre il cascinale si precipitò sulla colonna una canea di milizie che trovò i nostri impreparati: parte non aveva ancora guadato il fiume, parte ormai quasi a Cortenuova aveva rallentato per riformare i ranghi e procedeva in ordine sparso mentre sia davanti che ai lati gli imperiali usciti dai boschi ci stringevano in una morsa.

Del primo gruppo, 120-150 uomini, non si salvò nessuno: ognuno aveva contro cinque o sei imperiali che ne facevano scempio; il secondo gruppo riuscì a fare quadrato intorno al cascinale ma la potenza d’attacco era soverchiante: gli assalti di cavalleria sbandavano i ranghi dividendoli e le fanterie incalzavano senza requie le linee divelte; dal terzo gruppo, che man mano passava il guado, alcuni squadroni di cavalleria si gettarono nella mischia difendendo i fanti che a passo di corsa cercavano di raggiungere il cascinale dove organizzare una difesa accettabile. Si era concluso nel frattempo il passaggio del fiume e ogni capitano raccoglieva intorno a sé i suoi armati formando isole di resistenza su tre file: le lunghe picche abbassate, poi le alabarde e inframmezzo azze, spade e mazze; dal centro gli arcieri tiravano a parabola. Il massimo delle perdite si verificò sulle colonne che prime avevano passato il fiume.

 

 

Gli imperiali che a folate si gettavano sui nostri erano tedeschi, siciliani, saraceni e bergamaschi con parecchie linee di cavalieri. Al primo allarme Alberto aveva riunito il nostro manipolo: una decina di cavalieri e una cinquantina di fanti, muovendo in soccorso delle isole che non riuscivano a sopportare la pressione d’attacco; a ranghi compatti già varie situazioni di cedimento erano state tamponate, mentre si tendeva a riunirsi più stretti intorno al Carroccio. Si combatteva già da ore, correndo a destra e a manca dove era più necessario l’aiuto sempre spronati dalla voce di Alberto che incitava alla lotta, ma grazie al nostro valore non avevamo subito molte perdite. In un momento di stasi, eravamo al bordo di un sentiero, sul margine di una macchia di noccioli e castagni, sbucò dal folto una moltitudine di saraceni e bergamaschi che ci mise in mezzo. L’urto ci colse un po’ sbandati e Alberto fu subito separato dal resto dei compagni, Umfredo lo segnalò immediatamente e io cercai di radunare i nostri per portargli aiuto ma ci trovavamo davanti una muraglia di gente, lo vedevamo tirare colpi su colpi, travolgere fanti e cavalieri ma la schiera di attaccanti non finiva mai. Fu colpito il cavallo, balzò di sella con l’azza in pugno faceva mulinello tra i fanti avversari, noi stavamo guadagnando terreno pian piano avvicinandoci ormai a non più di una decina di passi. Da dietro gli stava andando addosso un cavaliere: Gottardo, traditore! con una spinta lo rovesciò a terra, quando finalmente riuscimmo ad arrivargli appresso per difenderlo era steso nel suo sangue riverso su un cumulo di feriti, mentre stava arrivando in nostro soccorso un altro gruppo guidato dal Terzago. Coi residui del nostro drappello lo rialzammo per portarlo verso il cascinale dove avremmo cercato di tamponargli le ferite, ma si vedeva che la vita lo stava abbandonando. Il soccorso dei Veronesi e degli armati di Pagano della Torre era ormai inutile. Gli imperiali avevamo perso il Carroccio, i nostri morti superavano il migliaio e Pietro Tiepolo, uno dei capi della Lega, era stato preso prigioniero.

Pagano e gli altri comandanti ordinarono il ripiegamento verso l’Adda, Lecco e la Valsassina dove riprendere le forze e riorganizzare la resistenza; da parte nostra, inviato un messaggero e caricato il cadavere di Alberto ci incamminammo verso Arcore.

Cosa era successo? Gottardo, con altri bergamaschi di pianura si era infiltrato tra i militi e una volta raccolte le informazioni necessarie era volato ad informare gli imperiali che erano già in movimento verso Cortenuova. Fu cosa facile tendere un agguato e sorprenderci senza difesa.

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