Dantedì 2021 Carlo Porta e il primo canto dell’Inferno
Il tentativo di collegare la figura di Dante Alighieri con la Brianza può sembrare alquanto difficile, anche se si allarga l’orizzonte e ci si accontentasse di trovare che il sommo poeta abbia citato la Lombardia nella Divina Commedia, come in effetti è, ci si accorge che nel Trecento la Lombardia era ancora un concetto geografico un po’ fluttuante, andandosi a collocare più verso est, addirittura fino a Treviso, per intenderci. Il signore di Verona, Bartolomeo della Scala è per Dante il “gran Lombardo”, vedete un po’. In un altro passaggio ecco ergersi una figura “altera e disdegnosa”, e lo stesso Alighieri nell’invocare Sordello che incontra Virgilio con quel “o anima lombarda” riconosce a questa qualifica un significato di “onore”, come riporta in un suo saggio su Dante, nel 1921, e cerchiamo di avvicinarci alla Brianza, Tommaso Gallarati Scotti, fratello del “Cunt de la Casoeula” di Arcore.
Nonostante questo flebile “contatto”, non ci resta che un ripiego, anche se il ripiego si chiama Porta Carlo, per dirla alla Brera (il giornalista sportivo), che per “lombardità”, non era certo da meno del Porta. Il poeta nella sua sterminata produzione annovera una manciata di canti della Divina Commedia. Ne proponiamo solo un assaggio, per non tediare oltre misura. In ottave milanesi, sono le tre d’aperture dell’incipit del primo canto dell’Inferno.
La proposta è quella di Giuliano Turone, autore di un monologo in cui scorre l’Italia attraverso i suoi dialetti, declamando nei differenti vernacoli i versi di Dante. (Al link l’intero monologo)
Prima di lasciarvi al video un cenno alla “cabala” che, perché si rispetti, ci si è presentata in tutta la sua casualità. 2021: 700 anni dalla morte di Dante, 200 da quella del Porta, 100 dal saggio di Tommaso Gallarati Scotti.
Per chi ne avesse voglia, rubiamo ancora un po’ di attenzione. Mettiamo in fila Dante, Porta e la traduzione italiana dei versi meneghini, ognuno potrà con calma confrontare le tre versioni e apprezzare la creatività del poeta milanese che va ben oltre ad una traduzione pedissequa. Dai suoi versi si sviluppa un “calore” unico, che conferma nella parlata dialettale, milanese nel nostro caso, una ricchezza d’espressione, che la lingua italiana non rende. Attraverso allegorie sempre colorite, che si palesano utilizzando raffigurazioni così vivaci e tanto esplicite, per confermare quel primato, appena accennato.
Dante Alighieri
Carlo Porta
Traduzione italiana
«Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.»
A mitaa strada de quell gran viacc
che femm a vun la voeulta al mond da là
me sont trovaa in d’on bosch scur scur affacc,
senza on sentee da podè seguità:
A metà strada di quel gran viaggio che facciamo, uno per volta, al mondo di là, mi son trovato in un bosco scuro, scuro affatto, senza un sentiero da poter seguitare:
E quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia et aspra e forte,
che nel pensier rinova la paura!
domà a pensagh me senti a vegnì scacc,
né l’è on bosch inscì fazzel de retrà,
negher, vecc, pien de spin, sass, ingarbij
pesc che né quell del barillot di strij.
solo a pensarci mi sento venire il gelo; ne è un bosco tanto facile da ritrarre, nero, vecchio, pieno di spini, sassi, grovigli, peggio di quello del ballo delle streghe
Tant’è amara che poco è più morte;
ma, per trattar del ben ch’io vi trovai,
dirò dell’altre cose ch’io v’ò scorte.
Quanto sia al cascià pussee spavent
in tra el bosch e la mort gh’è pocch de rid,
ma gh’eva anca el sò bon, vel cunti, attent.
Quanto sia al mettere più spavento, tra il bosco e la morte, c’è poco da ridere; ma c’era anche il suo buono, ve lo racconto, attenti.
Io non so ben ridir com’io v’intrai:
tant’era pien del sonno a quel punto
che la verace via abandonai.
Com’abbia faa a trovamm in quell brutt sid,
no savarev mò nanch tirall in ment:
soo che andava e dormiva, e i coss polid
in sto stat no je fan in suj festin
squas nanca i sonador de viorin.
Come abbia fatto a trovarmi in quel brutto sito, non saprei mo’ neanche tirarmelo in mente: so che andavo a dormire e le cose in questo stato non le fanno bene, nelle veglie danzanti, quasi neanche i suonatori di violino.
Ma quand’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
Ma, quand sont vegnuu a coo de quella vall
che la m’ha miss in coeur tanto spaghett,
me troeuvi al pè d’on mont che sora i spall
el gh’eva on farioeu d’or del pù s’cett
Ma quando son venuto a capo di quella valle, che mi ha messo in cuore tanto spago, mi trovo al piede di un monte che sulle spalle avevo un ferraiolo d’oro del più schietto,
guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già d’i raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogni calle.
ch’el fava starnudà domà a vardall:
farioeu formaa daj ragg de quell pianett
che s’ciariss tucc i strad e menna dritt
tucc i vivent all’eccezion di orbitt.
da far starnutire soltanto a guardarlo: ferraiolo formato dai raggi di quel pianeta che rischiara tutte le strade e mena diritto tutti i viventi ad eccezione degli orbi.
Per finire la lettura di Dianora Marabese, che propone l’intero canto sempre in dialetto milanese.
Aspetti, località e storia della Brianza. "Ci sono paesaggi, siano essi città, luoghi deserti, paesaggi montani, o tratti costieri, che reclamano a gran voce una storia. Essi evocano le loro storie, si se le creano". Ecco che, come diceva Sebastiano Vassalli: "E’ una traccia che gli uomini, non tutti, si lasciano dietro, come le lumache si lasciano la bava, e che è il loro segno più tenace e incancellabile. Una traccia di parole, cioè di niente".