Gli Oratori del Masciocco e del Dosso di Velate nel testamento di Francesco Croce
di
Paolo Cazzaniga
Abbiamo raccontato, in altre occasioni, del Dosso di Velate e della località del Masciocco nel comune di Camparada. Nel periodo che va dalla metà del Cinquecento, sino alla metà del secolo scorso, possiamo contare quattro famiglie che nel tempo si sono succedute nella proprietà di questa fetta di territorio. Cominciamo con la dinastia dei Casati, documentati dal lontano 1270, per arrivare alla metà del Settecento, quando subentrò la famiglia Croce, sarà poi la volta dei Borghi per il Dosso, e dei Somaglia per Camparada. Ora la lettura del testamento di Francesco Croce, ci permette di raccontare dei due luoghi, verso la metà dell’Ottocento. Oltre alle vicende della famiglia Croce, apriamo uno spaccato sulla società del tempo, o meglio di come una famiglia facoltosa gestiva i suoi affari con gli uomini e con Dio. Non vogliamo equiparare i due interlocutori, anche se gli “affari dell’anima”, non potevano prescindere da quell’aspetto “materiale”, che volenti o nolenti, attraversa la vita degli uomini.
La vicenda
Nel 1846 Francesco Croce muore e nomina suoi eredi universali le due figlie: Giuseppina, già vedova di Benigno Bossi Visconti e Carolina maritata con Giuseppe Nava.
Tra i beni del Croce c’era il “Tenimento del Masciocco”, che era entrato in possesso della sua famiglia, nel 1754, quando suo nonno, Marc’Antonio Croce, aveva acquistato dagli eredi della famiglia Casati. Tali beni risultavano “caricati” di un antico legato, istituito dai fratelli Galeazzo e Ambrogio Casati, nel 1712. Nel loro testamento i fratelli avevano voluto la celebrazione di una messa quotidiana a suffragio della loro anima, mettendo a garanzia i beni che possedevano al Masciocco, alla Valmora e al Dosso. I loro eredi, che dunque si dovevano sobbarcare l’impegno per la celebrazione quotidiana, potevano tuttavia fare conto sulla rendita prodotta da questa proprietà, per fare fronte alle spese necessarie a sostenere l’impegno. L’istituto del “legato”, per la legge di quel tempo, seguiva i passaggi di proprietà che interessavano il bene messo a garanzia. Così era stato per il “Tenimento del Masciocco”. Francesco Croce ne tiene conto nel suo testamento. Pur lasciando l’usufrutto della proprietà alle due figlie, indica i nipoti eredi di fatto, passando a loro l’onere del “legato”. Francesco, nelle sue volontà, decide di dividere il tenimento in due parti attraverso una precisa stima, e stabilisce che l’assegnazione agli eredi avvenga per sorteggio. Si arriverà a definire legalmente la suddivisione della proprietà quattro anni dopo la morte del Croce, nel 1850. Il Masciocco finirà a Giovanni e Antonio Bossi, figli di Giuseppina, a Giovanni Battista Nava, l’unico figlio di Carolina, andrà il Dosso. Da questo momento, anche i due antichi Oratori del Dosso e del Masciocco percorreranno strade separate, dopo aver condiviso per molti anni le loro vicende, culminate con lo scambio della dedicazione. Il titolo della “Madonna del Carmelo”, una volta del Masciocco, oggi onora l’Oratorio del Dosso di Velate.
I due Oratori
Brevemente riassumiamo la vicenda e l’origine dell’Oratorio del Dosso di Velate, rimandando per la sua trattazione all’articolo apparso sull’informatore comunale di Usmate e Velate nell’ottobre del 2017. La prima citazione del Dosso la troviamo nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani, di Goffredo da Bussero, caposaldo di tutti i cataloghi a seguire e fonte privilegiata di notizie per conoscere le chiese storiche del territorio. Compilato alla fine del 1200, la chiesa del Dosso di Velate è così indicata: “In Plebe Massalia ad Dossum Presbiteri ubi dicitur Soreram, Ecclesia Sancti Iacobi Zebedei”. Nel “Notizia Cleri Mediolanensis de anno 1398”, che delinea lo stato della chiesa milanese alla fine del secolo XIV, annovera nelle pieve di Vimercate il “capellanus dossi de prenede” (dosso del prete) con un reddito di 1 Lira imperiale, 2 soldi e 5 denari, e dunque per tale cespite viene tassato dal Fisco, confermando con la presenza di un cappellano, l’esistenza di un edifico religioso.
Il “Dosso del prete” risulta documentato da tempi memorabili, legando il luogo alle ultracentenarie vicende della famiglia Casati. Già nel 1270 il prelato Beato Conte di Casate, nel dettare le sue volontà, lascia in eredità ai nipoti “il possedimento che ha al dosso del prete”.
Nel catasto di Carlo V, 1558, si conferma la presenza della famiglia con Gerolamo Casati che tra bosco, campi avitati, arativi e pascolo arriva a possedere una estensione di 1800 pertiche, confermata alla fine del Seicento, quando risulta documentata al Dosso anche la presenza di un sito abitativo.
Furono gli stessi Casati, che oltre alle proprietà del Dosso detengono terreni anche nella prossimità del Masciocco, i fondatori dell’oratorio in quel luogo, dedicato alla Beata Vergine del Carmelo.
La prima notizia documentata, della loro presenza al Masciocco, risale al 1558. Sempre dal catasto di Carlo V, conosciamo che Gerolamo Casati, con domicilio a Milano, possiede terreni al Masciocco. In quell’anno è comunque confermata la presenza di abitazioni al Masciocco. Abbiamo notizia di un “sito con orto” che appartiene a Giuliano Trotti. Verso la fine del Seicento questa proprietà passerà a Galeazzo Casati, ampliandosi con altri terreni, per raggiungere un’estensione considerevole. In seguito Galeazzo, con il fratello Ambrogio, edificheranno l’oratorio in prossimità della loro abitazione. Oratorio che dunque esisteva nel 1712 quando i due, stilando il loro testamento, istituiscono un legato perpetuo per la celebrazione di una messa quotidiana a loro suffragio, nella chiesetta del Masciocco.
Arriviamo infine al catasto Teresiano, 1721, quando troviamo indicata, sulla mappa pertinente, per la cappella del Dosso la proprietà degli eredi di Ambrogio Casati. Gli stessi sono proprietari della cascina del Dosso e della Valmora, con i terreni circostanti. Per quanto riguarda il Masciocco e i terreni limitrofi, gli “eredi” sono indicati nella casata Nava. In ogni caso tutte queste proprietà e i due oratori saranno acquistati, nel 1754, da Marc’Antonio Croce. Per via testamentaria sarà poi la volta, nel 1774, di Giuseppe e quindi nel 1806 la proprietà finirà a Francesco Croce. Sarà appunto quest’ultimo, negli anni Venti dell’Ottocento, a edificare il nuovo oratorio del Dosso, nelle forme che apprezziamo ancora oggi.
Le vicende che portarono alla costruzione dell’Oratorio sono esaurientemente esposte nell’articolo, proposto all’inizio.
Il testamento
Veniamo ora ai contenuti del testamento. Il notaio, Cesare Chiodi, illustra la volontà di Francesco Croce di nominare eredi i nipoti e di lasciare comunque alle figlie ampie facoltà nella gestione della parte a loro assegnata. Potranno affittare le proprietà e realizzare le modifiche che riterranno opportune, tra cui “gettare piante”. Un particolare che evidenzia l’importanza della gestione delle essenze arboree nell’economia di quel tempo. La proprietà, indicata come “Tenimento del Masciocco”, che si estende nei due comuni di Camparada e Velate viene affidato ai due ingegneri, Antonio Valsnani e Francesco Brioschi, chiamati alla stima e divisione dei beni. La precisa consegna è quella di realizzare l’operazione con la massima equità. Viene costituito un primo lotto, con un’estensione di 732 pertiche, e un valore di 193160 lire austriache, il secondo, che si estende per 886 pertiche, vale 193248 lire. L’atto notarile racconta di come avvenne l’assegnazione dei due lotti: “…segnato su di un viglietto (biglietto) il Lotto Primo, e sull’altro il Lotto Secondo e posti questi alla riugnizione e presenza delle sottoscritte parti e testimoni in un cappello, dopo averli agitati il sig. Giovanni Battista Nava estrasse il viglietto portante il Lotto Secondo, per cui si riconobbe e si ammise essere per la sorte assegnato il Lotto Secondo delle suindicate divisioni al s. Giovanni Battista Nava, ed il Lotto Primo alli nobili di lui cugini sig.ri D.n Gio Batta e D.n Antonio fratelli Bossi Visconti.” Dei tre eredi designati, il solo Gio Batta Bossi è maggiorenne, gli altri due cugini sono rappresentati legalmente. Il Nava, dal padre Francesco, Antonio Bossi è tutelato dall’avvocato Giovanni Battista Pievani e dalla madre, Giuseppina Bossi, nella qualità di curatrice dei beni del minore. Tutti i protagonisti della vicenda risultano residenti a Milano, attestando così, almeno per il momento, come la proprietà di Francesco Croce facesse parte del patrimonio fondiario della famiglia, la sola abitazione che tenevano al Masciocco era utilizzata, dagli stessi, come luogo di vacanza in Brianza.
La famosa messa quotidiana, che avevano voluto i Casati a salvezza della loro anima, ed era celebrata da un “sacerdote mercenario”, al momento del testamento di Francesco Croce, necessitava di una spesa annuale di 450 lire imperiali. Spesa, che secondo le indicazione del defunto, doveva essere divisa tra i due rami ereditari. Viceversa risultava a carico dei fratelli Bossi, che nel sorteggio si erano visti assegnare il “lotto I”, la gestione dell’Oratorio del Masciocco. Questa l’indicazione: “L’assegnatario del lotto I dovrà conservare l’Oratorio del Masciocco, gli arredi sacri, le suppellettili, e quant’altro occorre per celebrare i divini ufficj”.
La religiosità dei fratelli Casati non si era limitata alla sola messa, avevano voluto dare vita, nel 1721, ad altri due legati per opere caritatevoli. Nell’atto di divisione, risulteranno a carico dei fratelli Bossi. L’impegno era di versare 8 lire milanesi al Capitolo di Santo Stefano di Vimercate e 6 lire al Convento di Santa Maria dei Servi di Milano, già soppresso in quel 1847. La particolarità che emerge da questo impegno finanziario, sta nel conoscere come queste cifre, in origine devolute a enti religiosi, con chiari intenti caritatevoli, risultavano ora a metà dell’Ottocento, incassati da privati cittadini. Il demanio aveva incamerato i beni della Chiesa, mettendoli poi in vendita a privati cittadini, che dunque ora riscuotevano le quote dovute un tempo alla Chiesa. Una pratica, che a partire dalla dominazione austriaca, per passare alla parentesi napoleonica, fino ad approdare all’Unità d’Italia, vedrà il ripetersi di queste espropriazioni a scapito della Chiesa.
L'antico Oratorio del Masciocco e la fornace
Al momento del testamento, mentre l’Oratorio del Dosso era collocato nella posizione odierna e le fattezze della costruzione abbastanza simili alle odierne, fatto salvo il campanile e la sacrestia, che saranno edificate in seguito da Giuseppe Borghi nel 1882, l’Oratorio del Masciocco, che oggi troviamo appena entrati nella corte dell’omonima località, era tutt’altra cosa. La mappa del 1721, “Catasto Teresiano” ce lo conferma.
La descrizione che ci è pervenuta dai due ingegneri, chiamati al sopralluogo per la divisione dei beni racconta: “Oratorio con due aperture, una verso strada, e l’altra verso la Sagrestia=suolo di cotto=volta simile=tre finestrelle, mensa ed altare di cotto, gradino a pradella di legno, quattro panche di noce, una delle quali logora” . Abbiamo ancora la descrizione della: “Sagrestia con suolo e volta di cotto come sopra=finestrella con ferriata, uscio verso corte=suolo gramo”.
Parliamo di un edificio, oggi scomparso, che si trovava in una posizione differente all’odierna, collocato a ridosso dell’abitazione dei Croce, in seguito essa stessa abbattuta, per edificare il complesso della corte nelle forme odierne.
Tra le informazioni, che abbiamo di questo scomparso edificio, dedicato alla Madonna del Carmelo, possiamo ricordare le notizie che ci forniscono un’idea dell’apparato iconografico dell’Oratorio, riferite all’anno 1870, quando Giuseppina Croce stende un contratto d’affitto, con Carlo Rinaldo Penati e Defendente Bonfanti, per la sua parte di eredità.
Questa la descrizione: “Pala all’altare dipinta ad olio con l’immagine della Madonna, due quadri ovali con dipinti (non specificati), due altri quadri con dipinti, per finire 13 quadretti della Via Crucis.”
Un’idea dell’importanza dell’insediamento del Masciocco, così come la conferma dell’autonomia del complesso, ci è fornita dall’esistenza di una fornace utilizzata per realizzare mattoni da usare in loco. La notizia di un edificio, di recente costruzione al momento dei rilievi di stima, documenta l’attività della fornace ancora alla metà dell’Ottocento. L’opificio si trovava nel territorio di Velate. Realizzato in “cotto”, era coperto da un tetto e protetto da un portico. Un’aia e la fossa d’acqua, completavano le dotazioni. I terreni circostanti, confermavano l’esistenza, rispondendo ai nomi di “Campi alla Fornace” e “Prato alla Fornace”.
La coltivazione del lino al Dosso
Abbiamo parlato del Masciocco e dell’Oratorio finito in eredità ai fratelli Bossi, ci dirigiamo ora verso il Dosso per scoprire alcune particolarità che ci sembrano degne di sottolineatura. Giovanni Battista Nava, figlio di Carolina Croce, sarà titolare del “Lotto II”, che comprendeva il Dosso e la Valmora. Tra i terreni acquisiti, c’incuriosisce quel “Campo del Lino” e il “Campo della foppa nuova”, che possiamo collocare nelle aree alle spalle della Cappelletta del Dosso. Dai toponimi la conferma di quei tentativi effettuati in Brianza per coltivare il lino.
La presenza della “foppa nuova”, necessaria alla macerazione del lino per farne filato, ci fa supporre con quel “nuova”, che la coltivazione fosse stata introdotta dalla famiglia Croce, in anni prossimi al nostro racconto. Come documentato nel libro “SORGENTI DI STORIA. I fontanili del Mirasole e la roggia Scotti dal Trecento ai giorni nostri”, realizzato dal Parco del Curone, abbiamo conferma della presenza di “relitti” della coltivazione del lino nel territorio del Parco. “La qualità del lino coltivata era “lino invernengo che suole essere coltivato in luogo piuttosto elevato e molto ben soleggiato”. Nella zona del mandamento di Missaglia, quindi non lontano da qui, nel 1817, si erano prodotti ben 542 quintali di lino. Informazioni che possono confermare, quanto abbiamo ipotizzato
Il grande torchio e la cantina
Altrettanto importante, per quanto si coglie dal testamento, risultava la produzione del vino al Dosso. I Croce e probabilmente già prima i Casati, avevano scelto il luogo per impiantare il torchio. Questa la dettagliata descrizione dell’apparato: “Sito di tinaja e del torchio con apertura grande verso corte chiusa da cancellata di legno fissa=tetto=suolo di terra=ed apertura di passaggio chiusa da cancellata d’imposta verso il portico. Torchio della lunghezza di 20 braccia costituito da un grande albero per pressojo, da due cavallettoni, da una vite la quale si aggira su di un alto basamento di vivo, e letto formato da una impalcatura di travi e da un grosso tavolato superiore”. Si trattava evidentemente di un impianto di tutto rispetto, che conferma l’importanza della coltivazione della vite in Brianza prima del declino, dovuto alla devastante fillossera, che farà la sua comparsa proprio a metà dell’Ottocento.
Nell’occasione dell’inventario, all’interno del torchio sono contati tre “tini”, (dove si faceva fermentare il vino) due hanno una capienza di 27 brente (circa 2000 litri) e il terzo un po’ più piccolo 22 brente. Nella cantina attigua al torchio, si contano 15 botti, ne è menzionata una da circa 4000 litri di capienza, sostenute da “calastre” (travi che tenevano le botti sollevate da terra), a loro volta appoggiate su pilastri in cotto. Ancora nelle dotazioni della cascina Dosso, la presenza della ghiacciaia, vi si accedeva discendendo dalla cantina con una scala di “vivo” che conduceva nell’ambiente realizzato con la volta e il pavimento in cotto. Un luogo dove si era in grado di conservare il ghiaccio, prodotto naturalmente in inverno e quindi utilizzato durante l’anno. Un lusso consentito a pochi, che testimonia l’agiatezza dei Croce
I coloni dei Croce
Nella dettagliata conta dei beni Croce, riferendosi alle abitazioni e ai terreni coltivati, spunta l’elenco delle famiglie che prestavano la loro opera come coloni, sia al Masciocco che al Dosso. I discendenti di queste famiglie che abitano ancora oggi gli stessi luoghi, o pur essendosi trasferiti, sono rimasti nello stesso ambito territoriale, potranno riconoscere i loro avi e magari ricostruire una pagina della loro ascendenza rinsaldando un legame con le proprie origini affievolito dal tempo.
Iniziamo dal Masciocco con Luigi Consonni, Paolo Viscardi, Carlo Brambilla, Carl’Ambrogio Pozzi, Natale Brivio, Innocenzo Viscardi, Terenghi Francesco, Giosuè Valnegra, Giuseppe Brambilla (falegname), Carlo Sangalli, Giuseppe Sala, Terenghi Giuseppe, Giuseppe Vimercati, Gio. Batta Perego. Per il Dosso, si ripetono molti dei precedenti, a cui si aggiungono Vincenzo Mapelli, Baldassarre e Angelo Riva.
L'oratorio del Dosso nel 1847
Arriviamo a questo punto alla descrizione dell’Oratorio del Dosso nel 1847, alla morte di Francesco Croce. “La pianta dell’Oratorio detto Cappelletta non ancora consacrato è formato da tre archi di cerchio, l’uno per l’apside in cui erigesi l’altare isolato sopra un basamento, e tabernacolo rivestito di marmo, il secondo arco costituisce l’Oratorio ossia il luogo pei divoti; ed il terzo di raggio minore volge la convessità verso la parte esterna è applicato a quello dell’oratorio e ne costituisce il pronao, il quale è formato da parapetto di cotto e di due colonnette di vivo a sostegno del coperto piano in plafone di giunchi difeso superiormente da tetto. Il pavimento del pronao è in lastre di vivo con tre gradini e due panche simili. L’Oratorio ha il pavimento di tavelle, due finestre con ferriata a rete di ferro verso il pronao, porta d’ingresso chiusa da due solide imposte, volta di cotto con tre finestre esistenti nei fianchi e balaustre a due tronchi curvilinei in marmo= l’apside ha il pavimento pure in tavelle, la volta in cotto e la mensa a foggia sepolcrale
Epilogo
Ancora d’interesse quello che poi accadde ai due Oratori, nel tempo delle sorelle Croce, che abbiamo raccontato in altra occasione: “la-madonna-del-dosso-di-velate-miracoli-o-eresia”
In seguito ai Croce subentrarono, per il Dosso i Borghi-Belgir, e al Masciocco I Conti della Somaglia, ma questa è un’altra storia e avremo tempo per ritornarci e raccontare quest’altra pagina della storia delle due località e dei loro Oratori.
Aspetti, località e storia della Brianza. "Ci sono paesaggi, siano essi città, luoghi deserti, paesaggi montani, o tratti costieri, che reclamano a gran voce una storia. Essi evocano le loro storie, si se le creano". Ecco che, come diceva Sebastiano Vassalli: "E’ una traccia che gli uomini, non tutti, si lasciano dietro, come le lumache si lasciano la bava, e che è il loro segno più tenace e incancellabile. Una traccia di parole, cioè di niente".