Spigolature briantine
Pier Ambrogio Curti, nel 1842, per la rivista “L’Omnibus pittoresco” scriveva, probabilmente da quella che definiva “umile terricciuola, che m’abbella gli ozii autunnali”, tradotto Peregallo di Lesmo, di una storia che risaliva al “declinar del XVI secolo” , dal titolo “Manetta de’ Peregalli”.
Prima di raccontare della vicenda diciamo qualcosa di Pier Ambrogio Curti, che passava, da buon milanese, la fine dell’estate e parte dell’autunno in Brianza. Il suo “buen ritiro” era Villa Curti, che fu ricostruita e arrangiata più volte nel tempo, e ripetutamente aggiornata nel nome, fino all’attuale “Villa Mattioli”, nota location per matrimoni.
Era stato, nel 1826, Giovanni Curti, negoziante e possidente, domiciliato a Milano, ad acquistare per 119569 lire austriache, da Pietro Sironi “beni stabili situati nel luogo di Peregallo”. Pier Ambrogio era nato nel 1919 e dunque, anche se al momento non abbiamo “pezze d’appoggio” inconfutabili, possiamo suppore che fosse figlio di Giovanni Curti. Ancora per inciso nella genealogia dei Curti citiamo Gian Maria (Luigi) sindaco di Lesmo dal 1890 al 1914. Di fatto confessiamo la difficoltà, e chiediamo lumi a chi ne sa, sulla ricostruzione dell’albero genealogico della famiglia Curti di nostro interesse. Il lotto acquistato su cui insisteva l’abitazione ammontava a 76 pertiche d’estensione e comprendeva “pezzi di terra con casa civile e colonica, oratorio, corte, giardino e brolo”.
Andiamo ora allo scritto del Curti. Non mancava di fantasia e nella sua veste di scrittore e storico, cerca di deliziarci della sua arte. Partiamo dal nome “Manetta”, oggi facilmente si associa ai modi di dire “mettere le manette” (di fatto privare della libertà) oppure il più gergale “andare a manetta” (procedere alla massima velocità). Manetta de Peregalli è invece una donna e da una ricerca del significato, ne esce, da una possibile origine greco-romana: “persona che mantiene saggezza”, e forse a questa accezione si è voluto indirizzare Pier Ambrogio Curti. A fare da spunto la leggenda fatta risalire al 1300 proposta da Ignazio Cantù nell’opera “Vicende della Brianza”, che raccontava di Rosa Peregalli da Peregallo innamorata di Gianguidotto Lesmi da Lesmo; i due sono costretti ad amarsi di nascosto, per l’odio che opponeva le due famiglie. Si sposano con la complicità di un frate eremita a S. Maria delle Selve nel Parco di Monza. La breve felicità dei due, si concluse con la morte di Rosa, probabilmente avvelenata e Gianguidotto che fu trovato nel Bosco Bello morto con una ferita al petto.
Sono trascorsi trecento anni, ma i Peregalli e i Lesmi, sono ancora ai ferri corti. Ora nel castello di Peregallo è signore Roberto Peregalli, padre appunto di Manetta, una graziosa e gentile fanciulla. Per i Lesmi è una donna a tenere le redini; Madonna Clarice, che ha cercato di distogliere i suoi sudditi dall’atavico odio verso i Peregalli, indirizzandoli alla coltivazione di pregiati vini sulle colline che salgono verso Lesmo. Anche Madonna Clarice ha un figlio, Arrigo e lo dirige verso Firenze dove gli sarà impartita una solida educazione umanistica. Il giovane è attratto dalla pittura e non manca, in Toscana, di apprenderne non solo i rudimenti ma di diventare un vero pittore. Ora ha vent’anni, è tempo che ritorni in Brianza al suo castello, vuole il fato che sulla strada del ritorno, amicizie del suo rango, lo invitino a trascorrere qualche giorno a Milano.
Qui nella casa dei Caimi, il fatale incontro. Ad un ballo è presente Manetta ed Arrigo è attratto dalla giovane. Solo in un secondo momento saprà della famiglia, da sempre nemica della sua, a cui Manetta appartiene.
La cosa non lo scoraggia e riesce ad accreditarsi presso i Peregalli, nella veste di pittore per dipingere un ritratto della ragazza. La sua presenza non desta sospetti in Roberto Peregalli, che riconosciuta l’abilità del ragazzo, gli commissione altri dipinti. La frequentazione dei due, nonostante le cautele praticate, viene scoperta. La ragazza è di fatto reclusa all’interno del castello e Arrigo gettato in una segreta del maniero. La ragazza con la complicità del castellano, riesce ad inviare una lettere alla madre di Arrigo, affinché si adoperi verso il governatore di Milano, al fine d’imporre a suo padre la liberazione di Arrigo. A fare da mediatore tra Madonna Clarice e l’autorità milanese, il Curti pensa bene di mettere in campo il prestigio di un famigliare di Carlo Maria Maggi, Ernesto.
L’uomo ottiene nel volgere di una giornata, l’ingiunzione per liberare Arrigo, che prontamente consegna a Roberto Peregalli, che dopo qualche ritrosia finge di accettare. Invita il Maggi, affinché i Lesmi, inviino una carrozza per prelevare Arrigo, ma immediatamente da ordine allo stesso tristo sgherro che aveva scoperto la relazione tra i due giovani, di sopprimere Arrigo. Senza che il vetturino inviato, se ne renda conto, il cadavere è caricato, e Madonna Clarice all’arrivo a Lesmo della carrozza avrà l’amara sorpresa. L’azione del Peregalli non può essere tollerata dal sovrano, che revoca il feudo a Roberto Peregalli e ordina la distruzione del castello. Immediatamente sulle sue rovine viene eretto un monastero dedicato a Sant’Agata.
Passano due anni ed una giovane bussa alla porta del convento, e Manetta Peregalli, che vuole farsi monaca per sciogliere il voto fatto durante la grave malattia che l’ha colpita. Con sorpresa scopre che la badessa del monastero è la madre di Arrigo, Madonna Clarice. “Manetta ebbe il velo, ed insieme a Clarice si confortò tutta la vita ad opere di cristiana pietà; morirono entrambe sante e que di Peregallo piansero alla loro morte inconsolabili”. Questa la conclusione del racconto del Curti.
Un po’ di storia…
Poi, in una sorta di appendice, lo scrittore propone, dopo la sua performance narrativa, ora nella veste di storico, un compendio a quanto svelato.
Per più d’un secolo restò Peregallo proprietà delle suore di S. Agata; un istrumento legale rogato dal giureconsulto Felice Antonio Bevania il 2 marzo 1742, ci avverte che il monistero era passato ai religiosi dell’ordine de minimi del collegio milanese di S. Francesco di Paola, e che coi redditi dell’eredità di Giuseppe Seroni vi si costruì unita la chiesetta pubblica, ancor si vede, dedicata a S. Antonio di Padova, dotata del beneficio d’una messa festiva. Sopravvennero rivolgimenti politici, e il monistero divenne casa di campagna d’un signore milanese, che ad altro vendevala qualche anno dopo, da cui or fanno quindici anni, l’acquistava la famiglia mia. Vi si operarono tali cambiamenti, che difficilmente si può desumere adesso aver servito a sacro asilo, non rimanendo altro vestigio che la leggenda Charitas in qualche vecchia suppellettile scolpita. V’era pure in Peregallo un altra casa di antica memoria, proprietà de conti Simonetta: ora foggiata al gusto moderno, ha mutato anch’essa signore. Nel luogo ov’erano i mulini della fabbrica di carta, lunghesso il Lambro or s’alza magnifico un caseggiato destinato alla macchina di filatura di cotoni dei signori Fumagalli e Stucchi di Monza; donde bellezza ed utilità al paese.
Qui giungiamo finalmente ad inquadrare la “tribolata eredità di Giuseppe Saronno”, non senza aver prima dedicato un giusto tempo nel confutare il Curti.
Per dare lustro al luogo della sua dimora, il Curti vanta prestigi passati: chissà se è mai esistito il castello dei Peregalli? Del monastero di Sant’Agata, nessuna traccia storica, quindi…
Finalmente, e questa è storia, il documento del 2 marzo 1742, è il testamento di Giuseppe Saronno, la cui famiglia, come vedremo, occupava questi luoghi, almeno dalla metà del Cinquecento. Quindi l’ordine religioso dei Minimi di San Francesco di Paola, che arriveranno in quel di Peregallo, a seguito del testamento del Saronno, solo nel 1751. Lo stesso testamento assicurò la possibilità alla comunità di Torrevilla, ancora un po’ più avanti nel 1773 di costruire una nuova chiesa Parrocchiale. Che poi il Curti fosse un assiduo dell’oratorio che insisteva sulla sua proprietà, ci lascia qualche dubbio. La svista nell’attribuzione del giusto Sant’Antonio, ci desta perplessità, non certo quello di Padova, ma quello del “purcell”, Sant’Antonio Abate.
Sarà poi la particolare devozione di Giuseppe Saronno, verso San Francesco di Paola, a lasciare tracce del santo, nato a Cosenza nel 1416, in diverse chiese della Brianza. Peregallo, Lesmo, Camparada e Torrevilla, ancora oggi custodiscono nei loro edifici religiosi queste tracce, che in seguito andremo a svelare.
Curti termina poi nel ricordare “Villa Rapazzini” che era stata dei Simonetta e l’opificio tessile Fumagalli e Stucchi che aveva preso il posta della “fola della carta”.
Di seguito proponiamo l’intero racconto, così come nel 1842 veniva pubblicato sulla rivista “Ominibus pittoresco”, arricchito di illustrazioni disegnate in questa occasione.
Un arrivederci alla prossima, in cui diremo del testamento di Giuseppe Saronno e di San Francesco di Paola