Arcore: Il Cippo dedicato ai partigiani vimercatesi, in stato di desolante abbandono
Nel corso della ricerca sulla ex area Falck, e l’ormai mitico progetto “HangAr-Core”, il racconto delle vicende dell’attività della “Bestetti Carlo costruzioni aeronautiche”, che si avvia al termine, arriva agli ultimi mesi del 1944, quando la stessa è presa di mira da due azioni partigiane, rivolte a danneggiare aerei in riparazione nei suoi hangar. Dopo l’incursione del 20 ottobre, con la distruzione di 5 velivoli SM 79 e i danni provocati ad altri apparecchi, una nuova azione il 29 dicembre, che vede cadere vittima Iginio Rota, a capo del “commando”, e quindi la cattura degli altri componenti l’attacco, che processati vennero giustiziati ad Arcore il 2 febbraio del 1945. A ricordo del cruento episodio, finita la guerra, sul luogo della fucilazione, nel campo volo della Bestetti, venne eretto un cippo che ricordava le vittime.
Ritorneremo sull’episodio nell’ultima puntata, che dedicheremo alla storia della società arcorese, ma abbiamo deciso di riservare questo spazio per una più ampia trattazione dell’episodio e soprattutto per denunciare lo stato di abbandono ed incuria in cui versa il “Cippo dedicato ai partigiani vimercatesi”.
Paolo Cazzaniga
La nostra denuncia ripresa da:
Settembre 2023 visita al “cippo”
Qualche giorno fa, grazie alla disponibilità di un “abitante” del “Villaggio Falck”, ho avuto modo di visitare, all’interno del complesso, il “Cippo dedicato ai partigiani vimercatesi”, di cui confesso, non avevo conoscenza prima della ricerca che ho in corso sulla Bestetti.
Ci siamo avventurati oltre le abitazioni, e sul margine della cinta muraria verso nord-ovest, a ridosso del prolungamento di via Carlo Bestetti, occorso dopo l’edificazione del complesso “Le torri nel parco” (per ora le torri, il parco… si vedrà!?), dunque su questo margine lo spazio dedicato al cippo dei partigiani.
Devo dire che l’erba alta e i rovi cresciuti prima di giungere al mausoleo, non erano certo incoraggianti. Ho intravisto i sei alberelli, con la loro forma bombata che contornano il cippo, coperti d’infestanti che in parte ne precludono addirittura la vista.
Arrivati agli scalini che scendono al cancelletto, che immette nella zona del monumento, altre erbacce e rovi formano una trappola all’incedere col rischio, ad ogni passo, d’inciampare e cadere. Lo stato del vialetto che conduce al cippo rispecchia lo stato d’abbandono, finora illustrato.
La mia gentile guida ha commentato che la situazione del luogo, mai particolarmente curato, è peggiorata negli ultimi due anni. Si interviene rendendola presentabile a ridosso della ricorrenza del 2 febbraio, poi per un altro anno tutto ritorna nell’oblio della vegetazione che ricopre il posto.
Qualche considerazione. Il cippo si trova nel Comune di Arcore, all’interno di una proprietà privata, la manutenzione, quando viene fatta, è a carico dell’Amministrazione Comunale di Vimercate. La frequentazione e la celebrazione del ricordo, sempre a detta della mia guida, è curata dall’ANPI di Vimercate, località da cui i partigiani provenivano.
Ci sembra doveroso a questo punto lanciare qualche proposta. Innanzitutto dare corso ad una manutenzione del luogo che possa essere continuata tutto l’anno, come ripetutamente mi ha confermato di aver sollecitato il presidente dell’ANPI di Vimercate, Savino Bosisio, all’Amministrazione Comunale competente. Immagino che qualche associazione, che ha a cuore la causa, possa con le opportune autorizzazioni, contribuire alla manutenzione del “cippo”. Voglio infine segnalare la possibilità di mettere in comunicazione direttamente il mausoleo con via Carlo Bestetti, opportunità resa possibile dopo la sistemazione sopraggiunta alla via, con l’edificazione del nuovo complesso residenziale, e rendere il luogo sempre fruibile a tutta la popolazione. In questo caso sarà necessario un accordo a più parti: i proprietari dell’area del “Villaggio Falck” e le Amministrazioni Comunali di Vimercate ed Arcore. Risultato non impossibile, se perseguito da “uomini di buona volontà”. Tutto qua, non disperiamo che questa idea possa essere raccolta ed opportunamente elaborata.
Una soluzione simile era stata richiesta, ormai alcuni anni fa, dall’ANPI di Vimercate, senza che si andasse al di là di qualche ipotesi possibilista. “Come si sistema l’area una volta all’anno, anche questa ipotesi ritorna sul tavolo in occasione del 2 febbraio durante le commemorazioni, per poi ritornare nel dimenticatoio”, sottolinea Savino Bosisio presidente ANPI Vimercate.
Ora la nuova viabilità ci sembra abbia semplificato la situazione e reso la soluzione meno complicata, da un punto di vista pratico, naturalmente non deve mancare quella buona volontà che le parti coinvolte dovrebbero dimostrare.
Dopo questa introduzione ritorniamo alla “storia” per raccontare di come si svolsero i fatti che condussero all’esecuzione della pena capitale, inflitta al “commando” che partecipò all’assalto del 29 dicembre 1944 allo stabilimento Bestetti.
I venti mesi che divisero in due l’Italia: settembre 1943 – aprile 1945
A farci da guida lo scritto di Carlo Levati (Partigiano Tom) “Ribelli per amore della libertà”, morto a 91 anni nel 2012, unico sopravvissuto, tra i protagonisti dell’assalto, fucilati poi ad Arcore il 2 febbraio del 1945. Il Levati, condannato contumace, era riuscito a fuggire per tempo prima di essere arrestato
Un po’ di storia
Il 23 maggio 1919 Mussolini fondava a Milano i “Fasci Italiani di Combattimento”. Il fascismo, con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, saliva al potere. La dittatura vera e propria iniziò con il discorso che Mussolini tenne alla Camera il 3 gennaio 1925. Nel novembre del 1926, con la promulgazione delle leggi eccezionali, venivano spazzate via le ultime libertà democratiche che ancora sopravvivevano.
Solo con l’ingresso dell’Italia in guerra a fianco della Germania nazista, il 10 giugno 1940, il consenso al regime cade gradualmente. Disagi economici e alimentari, disastri militari dovuti all’impreparazione della Nazione, massicci bombardamenti aerei, corruzione del regime, porteranno al definitivo crollo del consenso all’inizio del 1943.
La protesta popolare culminava con gli scioperi del marzo 1943 nelle industrie del Nord. Il 10 luglio gli angloamericani sbarcavano in Sicilia. Il 25 il Gran Consiglio del fascismo toglieva la fiducia a Mussolini e il re lo faceva arrestare; lo sostituiva il Maresciallo Pietro Badoglio, che annunciava: “La guerra continua”.
L’8 settembre veniva annunciata la firma dell’armistizio con gli angloamericani: la mancanza di ordini chiari da parte dei vertici portò alla dissoluzione delle nostre forze armate, mentre il re e Badoglio fuggivano a Brindisi.
Con la dissoluzione dell’esercito italiano si formarono i primi nuclei dell’esercito partigiano: soldati, operai, professionisti, studenti, rifugiati sui monti per sfuggire alla violenza nazifascista, si costituirono in gruppi di resistenza armata.
Intanto colonne tedesche affluivano ad occupare l’Italia, e Mussolini, il 12 settembre, veniva liberato dal Gran Sasso: pochi giorni dopo fondava la Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), con sede a Salò, sul Lago di Garda.
Il 13 ottobre 1943, il Regno del Sud, cioè l’Italia legale, dichiarava guerra alla Germania, con la speranza di liberarsi al più presto dell’oppressore tedesco e del cupo collaborazionismo fascista.
Iniziava, così, un periodo di lotta durissima, nel quale l’aspetto più drammatico è “la lotta armata fra gli italiani, fra i resistenti e coloro che hanno accettato di collaborare con il governo fascista di Salò.
Dopo l’8 settembre 1943, anche nella nostra zona gruppetti di militari sbandati, in possesso di qualche arma, agirono autonomamente contro i nazifascisti.
Solo dando loro una direzione politica e militare si sarebbero trasformate dalle iniziale “bande” in reparti politicamente coscienti e capaci di reggere lo scontro col nemico. Figura preminente nell’organizzazione delle prime brigate Garibaldi in zona fu il comunista Eugenio Mascetti.
Nella Brianza orientale, le Brigate d’assalto “Diomede” operavano nei paesi inclusi nel triangolo Melzo-Monza-Oggiono; zona divisa in quattro settori: Oggiono, Monza, Vimercate e Melzo.
Alla data del 30 novembre 1944 le forze partigiane della Brianza orientale risultavano così organizzate:
103° Brigata “Vincenzo Gabellini”(Vimercate) 400 uomini;
104° Brigata “Gianni Citterio””(Oggiono) 400 uomini;
105° Brigata “Luigi Brambilla” (Melzo) 168 domini.
Contemporaneamente si andavano organizzando le brigate del Popolo e Matteotti.
Giorgio Perego Insegnante di Storia
Creazione della 103° Brigata Garibaldi S.A.P. “Vincenzo Gabellini”
Racconta Carlo Levati: “Dopo l’inverno del ’43 (trascorso, tra le montagne e poi a costituire un gruppo di resistenza locale) uno dei nostri, e precisamente Pierino, veniva avvicinato da una persona la quale con discrezione chiedeva di poter parlare con qualcuno al fine di consolidare il gruppo o addirittura crearlo ufficialmente. Decidemmo di ascoltare tali proposte. Si arrivò così alla decisione di potenziare il gruppo inserendo, come uomo d’azione, Iginio Rota, che si rivelò utile. Nato nel 1921 a villa d’Almè, aveva prestato servizio militare presso l’8° Reggimento Autieri di Bologna, come sergente. Occupato presso il Linificio Canapificio di Vimercate, in qualità di capo officina, a lui venne affidato il comando con una decisione che fino a quel momento non avevamo conosciuto: la votazione. Nasce così il primo distaccamento 103° Brigata Garibaldi S.A.P. “Vincenzo Gabellini”.
Collegamenti con la 104° Brigata di Arcore
“Sul finire dell’estate del 1944 avvertimmo la necessità di stabilire un collegamento anche con la 104° Brigata Garibaldi che s’era formata ad Arcore (Alberto Paleari Giuseppe Centemero). Ciò per ampliare il fronte della Resistenza e per avere un appoggio reciproco nel caso ci fossimo trovati in difficoltà. Estendemmo i nostri contatti anche con gli antifascisti di Monza, al fine di allacciare un dialogo politico, necessario per le nostre azioni future”.
Primo attacco al campo di aviazione di Arcore 20 ottobre 1944
“Il Comando di Brigata preparava un attacco al campo di aviazione di Arcore, dove erano in riparazione aereo-siluranti S.M.79. Nell’hangar erano pronti per il decollo sei aerei che noi avremmo dovuto sabotare. Studiato il piano d’attacco partimmo tutti assieme per Arcore.
Era la sera del 20 ottobre 1944. Seguendo le stradine di campagna avanzammo verso il campo di aviazione passando a nord di Velasca. Dopo aver attraversato un campo, all’altezza della palazzina che si trovava all’interno del campo d’aviazione, mettemmo in atto il solito dispositivo di sicurezza per coprirci le spalle e la via di accesso al campo. Quindi entrò in azione la squadra sabotatori. Di soppiatto, strisciando contro il muretto ed evitando di fare rumore per non mettere in allarme le sentinelle, arrivammo all’ingresso dell’hangar.
Con un paranco sfondammo la porta, ed estratte dagli zaini le bottiglie molotov le lanciammo dentro le cabine di pilotaggio. Le bottiglie si ruppero, la benzina s’infiammò. Scappammo fuori in attesa di sentire i primi botti, ma ciò non avvenne. Bruciato il contenuto, la fiamma non si allargò ma si spense. Incredibile! Dopo un attimo di perplessità, Emilio ebbe un’idea che noi tutti approvammo. Si trattava di smantellare un pagliaio ai margini del campo, e in diverse riprese portare delle bracciate di paglia e deporle nelle cabine degli aerei; poi, sempre di corsa, arricchire la dose con delle bombole di ossigeno e acetilene, quindi dell’olio, legname e tutto quello che poteva far fuoco; infine coi cerini appiccare il fuoco in più punti. Facemmo tutto ciò e l’esito fu più che positivo. Sempre di corsa tornammo a casa al suono cadenzato e fragoroso delle esplosioni degli aerei, cantando “Va fuori d’Italia, Va fuori stranier” e “Bandiera rossa”. Cinque aereo-siluranti S.M.79 furono distrutti completamente ed uno venne danneggiato.
Il giorno seguente Radio Londra, nel suo bollettino di guerra, annunciava l’azione al campo d’aviazione di Arcore, condotta dal 1° distaccamento della 103° Brigata Garibaldi S.A.P. Vincenzo Gabellini. All’azione di sabotaggio avevano partecipato:
Iginio Rota nome di battaglia ACCIAIO, Renato Pellegatta RENA, Aldo Motta MIRCO, Pierino Colombo RABO, Luigi Ronchi NABO, Emilio Cereda CID, Mario Carzaniga IVAN, Erminio Carzaniga MARESCIALLO, Carlo Levati TOM.
Dopo questo attacco, come misura precauzionale, cambiammo la base e ci frazionammo in diversi gruppetti: non ci dovevamo incontrare per qualche giorno.”
Una coincidenza di date 20 ottobre 1944: assalto partigiano ed estinzione anticipata del mutuo decennale della Bestetti
Escludiamo possa trattarsi di una casualità la coincidenza, nella stessa data, dei due eventi citati. Abbiamo valutato a lungo la contemporaneità dei due fatti, senza tuttavia, approdare ad una conclusione accertata. La documentazione consultata non è stata di aiuto. Proveremo, nell’ultima puntata, che racconta la lunga vicenda industriale della Bestetti, di prossima pubblicazione a cui vi rimandiamo, a formulare qualche ipotesi.
Secondo attacco al campo di aviazione di Arcore. Cade il comandante Iginio Rota
Continuiamo ora con la testimonianza di Carlo Levati per arrivare ai tragici eventi dalla fine del 1944 sino al febbraio dell’anno successivo, in cui si compì il destino dei “Partigiani vimercatesi”.
“Le informazioni sul campo di aviazione di Arcore arrivavano puntualmente e con dovizia di particolari: nei capannoni dell’officina sostavano camion militari in riparazione, mentre nell’hangar vi erano sempre aerei. La forza di guardia era costituita da avieri comandati da un ufficiale, armati tutti di mitra. I militari del corpo di guardia non erano più di 12; l’unica variante era costituita dai civili che formavano le squadre antincendio e le guardie notturne. Erano in tutto una ventina.
A questo attacco parteciparono, oltre a noi, anche i partigiani di Rossino, i giovani del Fronte della Gioventù e quelli dell’Oratorio. Il punto di incontro fu stabilito nei pressi del ponte di legno sul torrente Molgora (via Quarto). Le armi da noi portate furono distribuite ai due gruppi d’attacco. Era la sera del 29 dicembre 1944. Alle ore 21.00, attraverso i campi raggiungemmo l’aeroporto di Arcore e dopo le ultime istruzioni ci dividemmo in due gruppi: il primo, guidato da Iginio, aveva il compito di bloccare la pattuglia fascista di ronda (istituita dopo il primo sabotaggio); il secondo, al quale appartenevo (sono stato designato responsabile del gruppo dal comandante Iginio Rota), doveva, invece, sabotare gli aerei ed i camion militari. Noi ci appostammo in un boschetto adiacente il campo, in attesa del segnale che avrebbe dato il via al sabotaggio, mentre Iginio partì seguito dal mitragliere del Breda 30 e da altri sei partigiani.
Qualcosa andò storto e nei pressi della palazzina del campo volo si sviluppò un conflitto a fuoco, di una portata non prevista. Il fronte del fuoco si allargò nella convinzione degli assaltati, che altri uomini potessero essere appostati, per dare manforte ai primi assalitori.
Continua Carlo Levati: “Il segnale che doveva portare in azione il secondo gruppo doveva darlo Renato. Dopo breve tempo arrivò ansimando e ci spiegò che l’assalto stava per fallire perché l’azione che doveva consentire al primo gruppo di bloccare i dodici fascisti che stavano nella palazzina del campo non era riuscita. Il motivo lo sapemmo dopo”.
Il gruppo destinato a sabotare gli aerei decise, a questo punto, di abbandonare l’impresa e cercò di aiutare il primo gruppo a lasciare indenne il campo. La cosa non fu semplice e il duro conflitto proseguì per una buona mezz’ora, quando finalmente la ritirata fu completata. Gli assalitori ritennero opportuno disperdersi, solo il Levati e un altro partecipante all’azione raggiunsero il campo base che fu presidiato fino all’alba.
Ancora il Levati: “Io mi recai a casa. Erano da poco suonate le sette quando si aprì la porta di casa mia ed entrò uno dei sei: era il Commissario politico Aldo Diligenti.
Il Diligenti chiede conto degli altri partecipanti al sabotaggio, di cui non ha più notizia, come lo stesso Carlo Levati, poi ricostruisce gli eventi della notte precedente. Tutto sembrava procede secondo i piani. Iginio Rota e il Diligenti avevano fatto irruzione nel locale che accoglieva i 12 fascisti, che presidiavano gli impianti, con l’intento di catturarli. Uno di questi, defilato dal gruppo, riesce a fuggire da una finestra e nella fuga s’imbatte in un altro partigiano messo a guardia all’esterno, la colluttazione che nasce vede il partigiano soccombere e al suo grido di aiuto, il Diligenti lascia la stanza per soccorrerlo. La mossa è fatale, il Rota rimasto solo, rinvigorisce i fascisti nella palazzina che pensano, ora nel trambusto, di avere la meglio sull’assalitore. Il Rota se ne avvede e decide di fare fuoco, purtroppo l’arma s’inceppa e Iginio viene colpito mortalmente, solo allora gli altri componenti dell’assalto riescono ad intervenire e lo scontro a fuoco fa molte vittime tra i fascisti. Il recupero della salma del Rota è precluso dall’accorrere di altre forze che presidiano la Bestetti. Per i partigiani non resta che fuggire e disperdersi.
Alla battaglia avevano partecipato:
1° squadra
Iginio Rota, Aldo Mota, Luigi Ronchi, Mario Carzaniga, Felice Carzaniga, Giulio Cantù, Gaetano Rigamonti, Giuseppe Ronco, Luciano Mauri, Enrico Assi, Emilio Dilegenti, Giancarlo Ronchi.
2° squadra
Renato Pellegatta, Pierino Colombo, Emilio Cereda, Erminio Carzaniga, Giuseppe Formenti, Carlo Levati, Luigi Ronco, Ruggero Ruggeri, Angelo Nava, Carlo Verderio, Aldo Diligenti, Luigi Assi.
Al link l’intero racconto di Carlo Levati sull’episodio
Nel video che segue la diretta testimonianza di Carlo Levati.
L’arresto dei miei compagni e la mia fuga rocambolesca.
Sempre Carlo Levati racconta: “Solo l’intervento di una spia fascista di Vimercate portò all’identificazione del nostro comandante, barbaramente sfigurato dopo essere stato ucciso. La morte di un gruppo di avieri fascisti venne confermata dai giornali, i quali cercavano di minimizzare l’azione partigiana.
Intanto la spia fascista, lavorando nell’ombra, riusciva a fornire i nomi degli altri componenti dell’azione al campo di Arcore e a condurre la squadra politica di Monza nelle nostre case”.
Dobbiamo dire che a distanza di anni dai tragici fatti, nel suo scritto Carlo Levati, preferisce non identificare mai le spie, con i loro nomi, che senz’altro conosceva, ma che una volta svelate non avrebbero aggiunto niente di positivo ad una vicenda tanto tragica.
La possibilità di essere identificati e catturati era altissima, quindi per quanto fosse a loro possibile, gli autori dell’azione, cercavano riparo, chi più chi meno, lontani dalle loro residenze. Era evidente che un rifugio sicuro fosse sulle montagne, dove si cercò d’indirizzare il gruppo di giovani partigiani. Nonostante la celerità dell’organizzazione, diversi componenti finirono per essere arrestati. Emilio Cereda, Aldo Diligenti, Pierino Colombo, Luigi Assi e Renato Pelagatta, furono catturati tra il 2 e il 3 gennaio, solo il Lovati riuscì a scappare, dopo una fuga rocambolesca. Dopo essersi sottratto all’arresto nella sua casa, lasciata in piena notte e a piedi nudi e aver trovato via via ripari di fortuna nella zona, grazie a diverse complicità di persone conosciute e non, il Lovati racconta di alcuni parenti, tra cui il padre, arrestati e gli stessi, che su suggerimento delle autorità militari, cercarono di convincerlo a consegnarsi. Conscio della pena capitale a cui non avrebbe potuto sottrarsi, preferì continuare la precaria latitanza. Finalmente fu avviato sulle alture di Ello, sopra Oggiono dove fu al sicuro. Nel frattempo altri componenti dell’assalto erano stati arrestati: Carlo Verderio, Angelo Nava, Enrico Assi e Felice Carzaniga.
Al link quanto riportato nel libro sull’episodio
Il 2 febbraio 1945
Riportiamo quanto scrive al proposito Carlo Levati:
“Il mattino del 2 febbraio 1945 ebbi un presentimento che mi tormentava, così verso sera inforcai la bicicletta e raggiunsi la base di Rossino per avere notizie degli arrestati. Accettai il rischio, dovevo sapere. Giunsi con il cuore in gola, e dal primo partigiano che vidi ebbi la conferma che il mio presentimento era una agghiacciante realtà. I miei compagni erano stati fucilati proprio in mattinata. Accompagnato dal capo del gruppo, Gaetano Rigamonti, non curante del pericolo di una cattura immediata, scesi a Vimercate nell’illusione che le notizie giunte a Rossino fossero false. L’illusione restò tale quando seppi dalla sorella di Aldo le ultime fasi del processo che aveva portato i miei compagni alla morte.
Ida, la sorella di Aldo, mi disse che tutti gli arrestati, mio padre, la sorella e la fidanzata di Iginio e Alfredo Parma, erano stati rilasciati qualche giorno prima. Dopo l’incontro la salutai e ritornai in montagna.
I miei compagni erano stati trasferiti dalle carceri di Monza a quelle di San Vittore a Milano. Gli interrogatori avvennero nelle carceri di Monza da parte della squadra politica. Nonostante l’uso dei soliti sistemi, cioè violenza e tortura, i partigiani non svelarono nulla di quello che sapevano. Il più provato fu Renato perché era il più giovane. Ma la fedeltà ai loro ideali e la coscienza di essere nel giusto diede ai miei compagni la forza di resistere a quella tremenda prova. Il processo, a porte chiuse, si svolse a Milano il 29 gennaio 1945. I nostri, dopo la terribile sentenza di morte mediante fucilazione guardarono i quattro compagni più giovani, che erano stati condannati a trent’anni, e subito fecero coro al canto intonato di “Bandiera rossa”.
I giornali fascisti definirono i nostri partigiani “bieche figure di terroristi”.
Nella cella del raggio della morte del carcere di San Vittore, questi uomini trascorsero gli ultimi giorni della loro vita.
Nel timore di un attacco partigiano per liberare i detenuti, i fascisti fecero pubblicare, sempre dal “Corriere d’Informazione”, che il 1° febbraio sarebbero stati fucilati i Partigiani di Vimercate, da loro chiamati “I banditi di Vimercate”. Infatti questa falsa notizia mise in allarme le brigate della provincia di Milano, che il 1° febbraio appostarono uomini nelle vicinanze delle strade che portavano al campo di Arcore, ma senza esito; infatti la fucilazione avvenne all’alba del 2 febbraio 1945.
Furono portati al campo di Arcore alle 7.30 del mattino. Lì, nella fossa dove venivano provate le mitraglie degli aerei, legati alle sedie ricevettero la benedizione da parte di don Luigi De Agostini, di Monza, e gli venne chiesta la loro ultima volontà. Risposero che volevano essere fucilati in piedi, al petto e senza benda sugli occhi perché non erano dei traditori, bensì dei Patrioti. Non furono esauditi.
Mentre cadevano sotto i colpi dei fascisti, i giovani partigiani gridavano “Viva la libertà” e “Ciao mamma”. L’ultimo a cadere fu Luigi, il quale, ferito leggermente, venne finito con un colpo alla nuca.
La testimonianza di questi ultimi tragici momenti ci venne fornita dagli operai della Bestetti, che furono fermati ai margini delle officine, e dal prete confessore.
La sera del 3 febbraio anche da Radio Londra giunse la notizia della fucilazione dei partigiani appartenenti alla 103° Brigata Garibaldi avvenuta al campo di aviazione di Arcore. Radio Londra fece anche i nomi delle due spie di Vimercate. Testualmente annunciò che il 29 gennaio 1945 si era riunito il Tribunale Militare straordinario di guerra di Milano per decidere della sorte dei partigiani della 103° Brigata Garibaldi. Il verdetto era stato di condanna a morte dei seguenti partigiani:
Pellegatta Renato nato il 25 ottobre 1923 condannato a morte
Ronchi Luigi nato il 10 gennaio 1921 condannato a morte
Colombo Pierino nato il 5 gennaio 1921 condannato a morte
Cereda Emilio nato il 14 agosto 1920 condannato a morte
Motta Aldo nato il 16 giugno 1921 condannato a morte
Quattro condannati a trent’anni, per minore età: Assi Enrico, Carzaniga Felice, Verderio Carlo, Nava Angelo.
Condanna a morte in contumacia per Carlo Levati.
La notizia della fucilazione si sparse in un baleno e le popolazioni di Vimercate, Oreno, Ruginello, Arcore e di altri paesi si recarono sul luogo dell’eccidio, sfidando i posti di blocco dei fascisti. Fu un pellegrinaggio di popolo, spontaneo e coraggioso, una dimostrazione ai fascisti che la gente non aveva paura di affrontarli. Era una sfida aperta che dava la misura del legame fra popolo e Resistenza ed era il preludio della insurrezione imminente.
Per giorni fu un continuo pellegrinaggio al cimitero di Arcore, sorvegliato dai fascisti: la forza d’animo acquisita dalla popolazione fu tale che nessuna arma la poteva fermare. L’esempio dei Martiri Vimercatesi diede quasi una forza sovraumana alla gente, che non solo non sentiva più il freddo di quel gelido inverno, ma aveva la forza di sfidare anche il posto di blocco messo all’ingresso di Arcore. La gente per giorni e giorni continuò questo pellegrinaggio, dando grande conforto ai familiari delle vittime”.
13 maggio 1945: la traslazione delle salme.
Il 13 maggio 1945 venivano traslate le salme dei Martiri Vimercatesi dal cimitero di Arcore al cimitero di Vimercate e allineate presso il muro di cinta della proprietà del conte Borromeo ad Oreno.
Il corteo funebre, con le bare portate a spalla dai partigiani e scortato dal Comando generale della divisione Fiume Adda, veniva accompagnato da una moltitudine di persone. Lo precedeva il Prevosto ed i preti della Diocesi.
Nella Chiesa di Santo Stefano veniva officiata la S. Messa in loro onore. Monsignor Enrico Assi concluse la cerimonia al cimitero con un’orazione funebre.
Per saperne di più
Abbiamo attinto dal sito dell’A.N.P.I. Vimercate e proponiamo in questo spazio alcuni stralci di testimonianze relative ai fatti di Arcore, che abbiamo raccontato.
La testimonianza ripercorre i momenti successivi all’esecuzione dei partigiani vimercatesi ad Arcore
ESTRATTO:
“Per quanto riguarda l’episodio di Arcore, ricordo che quando venimmo a conoscenza dell’avvenuta esecuzione dei partigiani vimercatesi sul campo di aviazione di Arcore, un brivido di commozione colpì profondamente la popolazione di Vimercate che aveva conosciuto questi ragazzi, li aveva visti crescere e frequentare come amici le proprie case.
Per la prima volta tutti indistintamente avvertirono in maniera tangibile l’oppressione esercitata dal regime, la totale assenza di Libertà proiettata anche nelle piccole esigenze di tutti i giorni il gesto vile e la reazione bestiale del regime scosse tutti nel più profondo dell’animo e indusse anche coloro che propendevano all’attesa a fare qualche cosa di concreto per dimostrare la loro non identificazione con il regime.
La reazione immediata fu quella di recarsi sul posto dell’esecuzione per rendere onore alle vittime portare fiori in segno di perenne ricordo per quanto essi avevano e continuano a rappresentare per le generazioni a venire.
Anch’io mi recai al Cimitero di Arcore e attraverso una piccola apertura riuscii a malapena ad intravedere i loro corpi stesi sul tavolaccio della camera mortuaria.
Con Gino Origgi ed altri, di cui non ricordo il nome, ci recammo a Sesto S. Giovanni, presso uno studio fotografico clandestino, per fare stampare le fotografie dei partigiani vimercatesi raggruppate in un unico esemplare e altre, in formato ridotto, ove comparivano singolarmente, da distribuire ai vimercatesi in modo che avessero sempre il ricordo dell’ideale per il quale questi giovani si sacrificarono.
Ricordo che i soldi necessari all’esecuzione di tali stampe furono raccolti con una colletta fatta tra la popolazione”.
Carzaniga si arruola nei Garibaldini a 17 anni e il 29/12/44 partecipa al sabotaggio agli aerei fascisti ad Arcore. L’azione fallisce e Igino Rota viene ucciso. Il 3/01/45 i fascisti irrompono a casa sua e dopo averlo picchiano lo conducono alla caserma di Vimercate. Interrogato nega sempre di sapere dove si nasconde suo fratello. Viene incarcerato a S. Vittore a Milano. Poi viene trasferito alle carceri di Monza dove incontra in cella Levati e Parma. Il 6/01/45 a Monza viene interrogato ulteriormente senza esito . Il 29/01/45 lui e gli altri imputati vengono portati al Palazzo di Giustizia a Milano per il processo. Cinque partigiani vengono condannati a morte gli altri 4 a 30 anni di reclusione. Il 2 febbraio i cinque compagni vengono giustiziati ad Arcore. Il 25/04/45 viene liberato e torna a Vimercate.
ESTRATTO:
“Dopo vari mesi, ecco che per me e per vari miei amici arriva il momento della prima azione. Si decide di sabotare vari aerei che si trovano negli hangar del campo di aviazione di Arcore, il 29.12.44.
L’azione falli cause varie che penso siano più dettagliate da altri miei compagni. Durante questo fallimento operativo nell’operazione di sabotaggio, il nostro comandante Rota Iginio rimaneva vittima sul campo. Sparpagliati per non essere presi nella sacca, riusciamo attraverso i campi, passando da Velasca, S. Maurizio e lungo il torrente Molgora, tornare alla nostra abitazione. Passarono alcuni giorni, sentivo vari commenti del popolo sull’accaduto. Ognuno diceva la sua :”sono venuti dalla montagna, sono venuti di qua, sono venuti di là” io in mezzo, sapendo tutto seguivo il loro ragionare. Dal riconoscimento del nostro comandante morto Rota, i fascisti aiutati da un nostro venduto vimercatese, risalirono le indagini alla ricerca dei partigiani. Essendo questa canaglia fascista conoscente e amico di lavoro del comandante Rota, permetteva alla canaglia meglio conoscere gli amici di Rota. Si arriva al 3 gennaio 1945 ore 7. I fascisti 20 circa circondano la mia abitazione. 4 di essi irrompono in casa mia. Io ero ancora a letto. Con prepotenza aprono la porta della mia stanza e con mitra puntati verso di me, mi sveglaino. Uno di essi , con voce cavernosa dice: “alzati e vieni con noi!” Io rispondo: “cosa volete?” Dai dai muoviti e non fare domande. Piuttosto dimmi dov’è tuo fratello Erminio, subito rispondo che dal settembre 43 che non lo vedo. E’ falso! Tuo fratello dormiva con te. Infatti si era alzato alle 6.30 per recarsi al lavoro a Milano. Fu la sua salvezza, perché se lo trovavano veniva fucilato con gli altri miei 5 compagni. Non guardando alle sottilezze perquisiscono la casa in ogni angolo, trovando nulla. Mi vesto velocemente, esco di casa e mi vedo circondato da circa 20 fascisti. Una macchina era già in attesa per il trasporto. Mi aprono la portiera posteriore e vedo che in macchina si trova il mio compagno Pelagatta. Un comandante fascista mi chiede a bruciapelo . Conosce quel delinquente? Rispondo: “mai visto. I riflessi miei erano prontissimi, gli occhi scrutavano ogni mossa intorno a me. Infatti in un batter d’occhio vedo arrivare un micidiale pugno, lo schivo e quel pugno andò a finire sulla carrozzeria della macchina. Incazzato per non avermi colpito, il fascista fa partire una scarica di pedate sulle mie gambe e pugni sulla schiena e con violenza mi buttano sulla macchina. Si parte per la caserma di Vimercate. (NB) Entro e ci trovo i miei compagni. In un angolo della caserma si trovava il caino la spia vimercatese fascista che ci vendette per pochi soldi. Incomincia l’interrogatorio e logicamente le mie risposte erano sempre negative. Non ricavando nulla mi buttano come uno straccio in un angolo. Chiedo io se potevo andare: Risposta – si verrai con noi a S. Vittore carceri di Milano, con i tuoi compagni delinquenti. Infatti si parte per S. Vittore. Dopo la immatricolazione e dopo aver lasciato documenti, cinghia etcc, mi portano in una cella squallida io, Assi, Verderio, Nava. Eravamo pensierosi e spaesati, al freddo, senza gavetta perché non esistevano più (tutto esaurito) con un cucchiaio di legno. Il primo giorno non abbiamo mangiato, perché ci faceva schifo. Orrendo era il servizio igienico, Il secondo giorno per magiare, essendo sprovvisti di gavetta, siamo andati a prendere un catino di alluminio nel rottame che si trovava vicino al lurido gabinetto, indescrivibile quale sia la pulizia, l’abbiamo pulito solo con i nostri fazzoletti, impossibile lavarlo, e in esso abbiamo messo le quattro razioni di sboba.
Con cucchiaio di legno dato in dotazione, i quattro lupetti mangiavano seduti per terra in giro a quel catino di sboba. Dopo due giorni arriva l’ordine di scarcerazione tutti contenti si passa al ritiro dei documenti e già si pensava quale orario di treno potevamo prendere per tornare a casa. Invece arrivano tedeschi e fascisti ci caricano su un camion militare ci trasferiscono ammanettati alle carceri di Monza. Altra immatricolazione, altro ritiro di documenti, altra cella. Io fui destinato in una cella con il papà del compagno Levati e il sig. Parma Domenico. Il papà del Lovati fu preso come ostaggio e Parma favoreggiatore della fuga del compagno Levati: Questo Levati e questo Parma furono arrestati dopo di noi e portati direttamente alle carceri di Monza: Incomincia a nevicare, freddo da cani alla notte, la finestra è senza vetro, il “buiolo” (vaso di servizio igienico della cella per tre persone per un giorno) una coperta, un pagliericcio pieno di pidocchi. Il Levati 65enne rammenta la sua Ceca (sua moglie). Il Parma 50enne rammenta i figli e la moglie. Io il più giovane con i più anziani. La sboba si mangia una volta al giorno e consisteva in un po’ di riso cotto, cotto o crudo con delle fogliacce di vers(z)e che nemmeno i conigli li mangiano e un panino. Ricordo bene che sia il Parma come il Levati mi davano mezzo del loro panino e mi dicevano: “non mangiare tutto, perché tutta questa grazia di Dio dovrà essere abbastanza fino a domani mezzogiorno”. Per ripararsi dal freddo si camminava avanti-indietro nella cella (m. 4X2) a turni. Alle 7 del giorno 6 gennaio 45 mi prelevano dalla cella e mi portano in un locale ove trovo i compagni Assi, Pellegatta, Colombo: Ci guardiamo in faccia, chissà dove ci portano. Alle 8.30 arriva un motofurgone Guzzi con della paglia sporca di sangue: Ahi si pensa, qui ci siamo. Ci portano in via Tommaso Grossi in Monza dove seviziano i partigiani. Messi in un locale al freddo, ci fanno sedere su una panca ammanettati due a due. Io ero con l’Assi. Siamo rimasti senza mangiare, ne bere fino alla sera verso le 19: Ricordo di aver chiesto un bicchiere d’acqua che prontamente mi fu negato rispondendomi: “dagli una coltellata a quel delinquente”. Durante la giornata si sentivano urla disperate di partigiani che venivano seviziati. Alle 19 ci prelevano e assieme abbiamo pensato: “Tocca a noi ragazzi”. Invece sul medesimo motocarro, ci riportano alle carceri senza essere stati interrogati. Non vedevo più dalla fame. Era un giorno e mezzo che non mangiavo. Entro in cella e ci trovo la mia sboba che gentilmente i miei compagni hanno prelevato al mezzogiorno. La sboba era gelata. Il Levati mi dice: 2 Bisogna scaldare è gelata”. Rispondo che non ho tempo e nemmeno non c’è il mezzo. Mi sono messo a mangiare, mangiando pure la mia razione di pane più le loro due mezze. Al termine di questo gran pasto mi dicono: ” Povero ragazzo avevi proprio fame. Non pensi che fino a domani mezzogiorno non si magia più”. Ci penserò domani, incominciamo a mandar giù qualche cosa ora. Alla mattina del girono dopo, sento aprire lo sportellino della porta della cella, vidi buttare un panino accompagnato da un asola parola “Mangia”. Chi fu il donatore, mai lo seppi. Ogni due tre giorni venivo interrogato facendomi delle proposte di libertà, purché dicevo dove era mio fratello Erminio. Risposte sempre negative. Tra freddo, fame e pensieri si arriva al 29.1.45 arriva la scarcerazione dal carcere di Monza. I miei due compagni anziani Levati e Parma che tanto mi hanno rianimato il morale vengono scarcerati definitivamente, mentre noi nove ci caricano su un camion ammanettati e ci portano al processo a Milano (Palazzo di Giustizia). Il processo avviene a porte chiuse sotto controllo delle armi fasciste. Il processo dura due ore. Accuse a non finire come delinquenti comuni, spregiudicati, assassini. Le stesure di causa di cadauno di noi lette dal presidente, non erano contrastate da nessun difensore . Quando qualcuno di noi rispondeva che non era vero quella o codesta accusa, subito rispondevano di tacere, già ha parlato troppo. Ricordo che un tenente fascista riconobbe il Ronchi, conoscenza avvenuta in Russia, e questo tenente alzando le doti militari del Ronchi, tentò di sottrarlo all’accusa: Tutto fu inutile: La corte dopo due ore condanna cinque alla fucilazione e quattro a 20 anni di reclusione. Nessuna difesa, impossibile parlare. si sospende momentaneamente il processo per ritiro della corte per circa mezz’ora. Ricompaiono le canaglie per il verdetto finale. Cinque fucilati e i quattro che avevano 20 anni portati a 30 anni. Ricordo le parole dei miei compagni dopo la condanna nella sala processuale. “Fummo stati troppo buoni con voi, ma ricordatevi che altri dopo di noi faranno giustizia”. ammanettati e dietro parolacce d’insulti, ci caricarono su un camion militare e nuovamente ci riportarono a S. Vittore. Fu l’ultimo giorno che vidi i miei compagni. Grande, incomprensibile, memorabile, indimenticabili questi momenti di addio dalla vita. Non li scorderò mai, perché assieme ho vissuto le ultime ore della loro vita giovanile donata per la faticosa libertà. Le loro ultime parole furono un saluto ai famigliari, un abbraccio fraterno a noi rimasti ed infine un loro desiderio: “Ricordatevi di noi”. Non una lacrima scese dai loro occhi. Un nuovo riabbraccio ed infine la separazione eterna: Noi condannati a 30 anni ci misero in una cella al raggio intermedio. I cinque martiri in un’altra cella i attesa dell’esecuzione. Furono giorni d’angoscia l’attesa del sacrificio. il 2 febbraio cantando partono per il sacrificio alla nostra libertà. Mentre scrivo (dopo 40 anni) mi sembra di rivivere quei tristi momenti, momenti memorabili e indimenticabili. Così giorno dopo giorno i 4 condannati passano la loro vita in quelle celle di S. Vittore, sotto un cumulo di pensieri in attesa della libertà. Sempre aggiornati del movimento esterno, arriva il giorno della libertà 24-4-45. Altro giorno indimenticabile, il cambio della guardia. I fascisti arrestati ci sostituiscono nelle carceri. Ritorniamo alla nostra Vimercate in bicicletta, con una accoglienza patriottica veramente festosa e indimenticabile.
A 17 anni nel 1944 raccoglie, con i suoi amici, vestiti e vettovaglie per i partigiani della 103ª SAP. Dipendente della Bestetti passa ai partigiani informazioni necessari ad organizzare i due attentati di fine 44. Costruisce all’interno della ditta con la complicità di un altro dissidente attrezzatura necessaria a sabotare la ferrovia. Partecipa al secondo attacco al campo volo Bestetti il 29 dicembre 1944. Viene arrestato e processato con gli altri Partigiani. la condanna a morte richiesta in un primo momento è commutata con il carcere a 30 anni. Liberato dopo il 25 aprile 1945 ritorna a Vimercate libero il 26 aprile.
ESTRATTO
“…Io e il Nava lavoravamo alla ditta Bestetti di Arcore la quale provvedeva al recupero e alla riparazione degli aerei italiani/tedeschi, ma eravamo nella fabbrica di S. Giorgio di Villasanta. (A fine giugno 1944 la Bestetti aveva spostato parte dei suoi macchinari a Villasanta come comunica alla I.M.I., istituto che aveva concesso un mutuo decennale per la cifra di circa 650.000 lire e che a garanzia aveva ipotecato stabilimento terreni e macchinari della Bestetti) Prendemmo la nostra decisione convinti che la lotta armata fosse l’unica soluzione contro un regime antidemocratico e passammo alla 103ª SAP le informazioni sul campo di aviazione, sulla ubicazione degli Hangar, sulla data di missione per gli auto-siluranti, e sul contingente che presidiava il campo. Così gli aerei pronti ed armati furono fatti saltare durante la prima incursione. (SM 79) il 20 ottobre 1944. Il presidio del campo fu immediatamente rinforzato con militi della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana) per scongiurare ulteriori incursioni. Subito dopo l’attacco al campo di aviazione i Partigiani Vimercatesi sabotarono la linea ferroviaria con chiavi inglesi e piedi di porco, utensili che avevo procurato loro fabbricandoli di nascosto in ditta. Dopo questo atto di sabotaggio i fascisti costringono i civili arcoresi a fornire personale per ordine pubblico notturno con funzione di controllo dei binari ferroviari (ogni km./1 uomo) i quali rispondevano di persona di eventuali sabotaggi nel tratto da loro custodito (erano disarmati). Il secondo attacco al campo di aviazione richiese una mobilitazione più vasta per due motivi: 1°) oltre agli aerei l’officina Bestetti riparava anche autoblindo e materiale corazzato. 2°) Maggior numero di sentinelle e di truppa dislocati su una vasta area. Furono così mobilitati, sempre con il sistema del volontariato, i Giovani del Fronte delal Gioventù e un gruppo di ragazzi dell’oratorio. Punto di ritrovo il ponte di legno sul Molgora di via Quarto. L’attacco doveva essere portato in due ondate: 1ª) Una squadra in divisa fascista doveva disarmare il presidio. 2ª) La squadra coi giovani capitanata da Tom doveva entrare nel campo e sabotare aerei e mezzi. e qui posso raccontare la versione data dai fascisti all’episodio. il colpo di mano era quasi riuscito se non che un milite, uscendo dalla seconda camera vicino alla mensa, si trova davanti Iginio Rota il quale Rota tenta di aprire il fuoco col mitra, ma questo s’inceppa. La guardia estrae la pistola e fa fuoco contro il Rota freddandolo. Noi che eravamo indietro avevamo il compito, una volta immobilizzata la guardia di entrare ed incendiare con molotov e bombe a mano gli aerei. Purtroppo, sentiti gli spari e le sirene di allarme, abbiamo aperto il fuoco di copertura e poi ci siamo sganciati in previsione dell’accerchiamento, poi avvenuto, per non rimanere intrappolati. Alcuni riuscirono a rompere l’accerchiamento con le armi in pugno e a dileguarsi nella campagna. Arriviamo agli arresti: il 2 gennaio, all’alba, sento battere alla porta di Renato Pellegatta, io dormivo in un camera attigua e seppi al mattino degli altri arresti, della fuga di Carlo Levati e dell’arresto di suo padre e di Parma Alfredo. Il mio arresto avvenne due giorni dopo, il 4 gennaio, mi trovavo sul posto di lavoro (a S. Giorgio di Villasanta) fui l’ultimo ad essere arrestato, venne il capo reparto che mi disse: “Non c’è via di scampo! Ci sono i fascisti che ti vogliono! Questi mi chiesero di mostrare loro i miei indumenti così li condussi negli spogliatoi, li frugarono tra gli abiti civili e quelli di lavoro: nulla trovarono se non il Vangelo e il Rosario. La prima cosa che fecero mi batterono a sangue ripetendo: ” Proprio uno che ha in tasca il Vangelo e il Rosario si permette di fare queste cose!” Quando mi videro esamine mi caricarono su di un camion portandomi ad Arcore dove c’era il Nava, già arrestato, quindi ci tradussero a Monza alla sede della Polizia Politica il comandante era certo Maragni, in un angolo vidi Cereda e Pellegatta, Renato senza farsi notare, si portò la mano allo stomaco di taglio cenno che indicava che nessuno aveva parlato, secondo le regole clandestine, ciascuno aveva sempre negato anche l’evidenza dei fatti. Margni mi chiese se conoscessi i due all’angolo, risposi di si, Pellegatta abita nel mio cortile mentre l’altro non l’ho mai visto. Dopo ci separarono ed iniziò l’interrogatorio a base di botte. Io negai tutto anche se loro dicevano che era impossibile perché sapevano che tutti gli arrestati si conoscevano l’un l’altro. Continuai a ribadire che la mia conoscenza si limitava a Renato, a questo punto Maragni estrasse un foglio sul quale vi era tutta la serie dei nomi dattiloscritti degli arrestati più altri nomi di partigiani di Vimercate che non vennero però arrestati, forse perché considerati di minore importanza. Subii ancora due interrogatori, ci misero in celle separate in mezza a delinquenti comuni. Prima del processo, all’istruttoria ci ritrovammo insieme e la prima cosa che ci confidammo fu che nessuno aveva parlato ne, tanto meno, fatto i nomi. Ricordo Renato che a Milano, poco prima dell’istruttoria, ci chiese se avessimo parlato, alla risposta negativa da parte nostra si congratulò con tutti. Ci guardammo in faccia, ognuno di noi portava i segni degli interrogatori subiti, Renato aveva un occhio tumefatto e nero, ma il fatto di aver resistito ci sollevava da tutti i dolori nel fisico. Circa due giorni prima che ci portassero a Milano (circa il 27 gennaio) vidi l’uscita dal carcere del padre di Carlo e di Parma, attraverso lo spioncino e una guardia carceraria mi confidò che avevano liberato alcuni arrestati di Vimercate. Giungemmo a Milano il 28 gennaio, ci fecero un’istruttoria formale dove ci lessero i capi d’imputazione e ciascuno di noi negò la propria reità. Poi ci trasferirono in un luogo di segregazione sconosciuto (non era S. Vittore) da noi non identificato. Il mattino dopo ci fu il processo militare al Palazzo di Giustizia, a porte chiuse e durò un ora circa. Corte e giuria erano composte da militari. Dopo la lettura dei capi d’accusa e le relative risposte negative da parte nostra; il P. Ministero chiese la condanna a morte per tutti. Il difensore, anch’esso militare, nominato d’ufficio propose l’attenuante per i quattro giovani che venne accettata perché prevista dal Codice di procedura penale. Letta la sentenza la nostra reazione, capeggiata da Renato Pellegatta, esplose: cantammo “Bandiera Rossa”. Renato, per il suo atteggiamento deciso e risoluto, era considerato dai fascisti il capo della nostra banda e lui non fece mai nulla per distoglierli da questa ipotesi. Al termine del processo ci portarono a S. Vittore e ci separarono: i condannati a morte in un raggio, noi nel raggio intermedio strettamente sorvegliato dove erano rinchiusi i condannati a lunghe pene detentive. Seppi della fucilazione dei miei compagni proprio il 2 febbraio quando vennero a farmi visita i miei genitori che erano giunti a Milano accompagnati dai parenti dei condannati a morte ai quali fu detto dalle guardie carcerarie che i loro congiunti erano stati tradotti altrove (io non dissi mai nulla ai miei genitori sulla sorte e perché avessero trasferito i Partigiani Vimercatesi). Cinque giorni dopo in una seconda visita parenti seppi che i miei compagni erano stati fucilati ad Arcore.”
SCIOPERI 43-44
“Non mi risulta che alla “Bestetti” dove lavoravo ce ne siano mai stati, però mi ricordo di quella parola “sciopero” che non sapevo cosa significasse; perché a noi sconosciuta in quei tempi e si discuteva fra operai per quello che era avvenuto a Milano e a Sesto San Giovanni. Per sapere il significato esatto di questa parola mi rivolsi al fabbro ferraio della ditta, che non faceva misteri a nessuno delle sue idee antifasciste, (fu quello poi che mi aiutò a costruire le chiavi fisse e i piedi di porco per sabotare la linea ferroviaria) e lui mi spiegò per filo e per segno in che consisteva la parola sciopero.
Colombo Lucia in racconta i giorni precedenti l’arresto del fratello, il giorno dell’uccisione dal suo punto di vista e il giorno del funerale.
“…Entrarono i fascisti in casa (circa 15) circa alla una di notte a perquisire la casa creando scompiglio e disordine in ogni stanza.
Rimanemmo soli, io e mia madre; allora con le sorelle degli altri arrestati si andava a piedi fino al carcere di Monza, tra la neve che in quell’anno del ’44 era caduta in abbondanza, senza riuscire a parlare con loro perché, ogni volta, ci veniva proibito. Finalmente un giorno riuscimmo ad ottenere il fatidico permesso.
N.B. La squadra politica di Monza inviava quotidianamente agenti in borghese, a Vimercate, affinché indagassero sull’attività della popolazione e per tentare di ottenere notizie sui ricercati. Così, questi poliziotti spesso fermavano il nostro gruppo mentre si andava verso il carcere, soprattutto Carla Motta, con insistenza ripetevano: ” Dov’è tua sorella! (?) Dove si nasconde il baffo nero! Noi non parlavamo ed acceleravamo il passo. Al colloquio eravamo tutte atterrite e spaventate dall’incognita che gravava su di loro; ricordo di essermi sentita tanto male da non avere la forza di parlare, riuscivo solo a piangere e mio fratello mi disse: “Non piangere Lucia, non ci faranno nulla! Queste solo le uniche ed ultime parole che sentii dire da mio fratello. Un mattino, mentre fuori dal carcere eravamo in attesa di colloquiare con loro, le guardie ci dissero che non erano più a Monza, la disperazione scese su di noi, disperazione dovuta anche alla non consapevolezza di dove fossero ora i nostri cari, ma, guardando attentamente, mi accorsi che dietro una piccola finestra nei pressi dell’ingresso del carcere, qualcuno faceva dei cenni; erano loro e mi chiedevano, gesticolando, di voler fumare: Avvisai subito le mie compagne che le notizie forniteci dalle guardie erano false e mi avvicinai alla finestra passando, attraverso la breve fessura, le sigarette che avevo portato. Rimanemmo quindi in attesa di qualcuno che ci potesse fare rilasciare un permesso di colloquio quando li vedemmo uscire ammanettati e caricateli su un camion partire per ignota destinazione. Cominciammo a piangere e a singhiozzare mentre loro, dal camion in moto, continuavano ad urlare rassicurandoci che non gli sarebbe stato fatto alcun male. Il giorno successivo, per combinazione, Ida andò a Milano dallo zio, che aveva una latteria, e ci fece sapere che erano internati a S. Vittore. Ci organizzammo per partite l’indomani, giovedì 1 febbraio, e portare loro i pacchi coi cambi di vestiario e qualche genere di conforto,; purtroppo non stetti bene quella notte e così non potei andare con loro dicendo che sarei andata il giorno seguente. La mattina di venerdì 2 febbraio partii con le altre sorelle e giunte davanti a S. Vittore aspettavamo di entrare quando alla Cereda venne in mente di acquistare il quotidiano; ritornò verso di noi gridando e agitando il giornale ove vi era scritto che “i banditi di Vimercate erano stati giustiziati il mattino del 1° febbraio ad Arcore” Volevamo renderci conto se quella fosse la verità e, all’apertura delle carceri, entrammo, ma ci dirottarono in una saletta dove, dopo poco tempo, entrò il cappellano che disse: “purtroppo li hanno portati via all’alba! Ribadimmo che il giornale diceva che l’esecuzione era del giorno precedente, ma lui ripeté quanto aveva appena affermato w se ne andò. Mi balenò per la mente che mia madre era solita comprare quotidianamente il giornale e mi sentii mancare all’idea di vederla leggere la triste notizia senza alcun conforto accanto. Decidemmo, poiché il tram passava solo la sera, di ritornare a piedi quando incontrammo lo zio di Ida che ci disse: “E’ inutile tornare a casa, venite a casa mia a scaldarvi un po’, e questa sera tornerete col tram!” Così, in silenzio, piangendo, lo seguimmo. Giungemmo al negozio e ci offrì del latte caldo, bevemmo tra le lacrime bisognava aspettare le 17 per tornare a Vimercate, ci confermò che i ragazzi erano stati uccisi quella mattina e non il giorno prima come invece asseriva il giornale. Quando ritornai a casa vidi mia madre sconvolta circondata da altre donne; non appena mi videro si rinnovò il dolore ed insieme, abbracciate, scoppiammo in lacrime, scosse da violenti singhiozzi. Il venerdì, A Vimercate, è giorno di mercato e mia madre, per guadagnare qualche lira, pettinava le donne anziane in un locale che aveva al piano terra e sentii alcune donne dire: “Li hanno uccisi! C’era il figlio di una signora che abita qui vicino e il fratello di Rosa (Ronchi)!” Un urlo uscì dalla sua gola e si precipitò all’edicola; qui il venditore le disse che non c’erano più giornali e che stava chiudendo. (ma di fronte alla sua insistenza dovette cedere e le diede una copia del quotidiano) Il sig. Lucchini, trasportatore di merce con camion di professione, portò mia madre ad Arcore. Subito il mattino del 3 febbraio partimmo, noi sorelle, per vedere i nostri fratelli. Entrammo nella camera mortuaria, i corpi stesi sul tavolaccio i secchi pieni di sangue che colava dalle loro ferite. Andammo dal parroco di Arcore che ci narrò come, durante la Messa, i fascisti abbiano fatto irruzione in Chiesa per prendere le sedie sulle quali furono fucilati i ragazzi. Il Parroco di Monza diede ad ogni famiglia il crocefisso che aveva fatto baciare a ciascun partigiano prima dell’esecuzione. Tutti i giorni andavamo ad Arcore, al cimitero per piangere sulla tomba dei nostri fratelli, e i fascisti ci arringavano proibendoci di ritrovarci e di stare insieme tra noi sorelle perché sulla tomba vi erano sempre fiori con nastri tricolori, dicendo che era una provocazione al regime stesso. Il cimitero era sempre presidiato dai fascisti, assistemmo alla sepoltura dei nostri cari. Il rimpianto che ancora oggi è presente in me e dovuta al fatto che il 1° febbraio, per un malore, non potei parlare con mio fratello, mentre le altre sorelle ebbero almeno l’opportunità di quell’ultimo colloquio.
Aspetti, località e storia della Brianza. "Ci sono paesaggi, siano essi città, luoghi deserti, paesaggi montani, o tratti costieri, che reclamano a gran voce una storia. Essi evocano le loro storie, si se le creano". Ecco che, come diceva Sebastiano Vassalli: "E’ una traccia che gli uomini, non tutti, si lasciano dietro, come le lumache si lasciano la bava, e che è il loro segno più tenace e incancellabile. Una traccia di parole, cioè di niente".