Spigolature briantine
Lo storico Dozio nel dare alle stampe il suo volume “Notizie di Vimercate e sua Pieve” nel 1853, scrivendo di Arcore menzionava un mitico Alberto da Arcore della famiglia dei Valvassori d’Arcore, perito valorosamente nel 1237 a Cortenuova nel bresciano (nel testo del Dozio troviamo scritto 1257, pensiamo ad un refuso). Pochi conoscono questo episodio storico, così indietro nel tempo, e ancora meno numerosi sono senz’altro quelli che hanno mai sentito parlare dell’Alberto da Arcore. Tonino Sala ha voluto indagare su questo arcorese di 800 anni fa e sulla base delle notizie storiche ha ricostruito le vicende che portarono alla morte del coraggioso, aggiungendo, frutto della sua fantasia e inventiva, il mesto ritorno della salma nella natia Arcore.
Arcore – L’impianto medievale:
Boschi estesi coprono le colline a nordovest, le coste del Lambro e i confini territoriali del paese verso sud e verso est.
Nel piano, boschi di riviera, delimitano i rami delle Molgorane, che scorrono in un letto profondo circa 3-4 braccia rispetto al livello del terreno e si riuniscono a formare un unico corso all’ingresso dell’abitato dove alcuni ponti li attraversano. Modesti boschetti cedui definiscono le proprietà e seguono i bordi delle strade. Qualche impaludamento, generato dal ramo della Molgorana che scorre al bordo delle colline, causa ristagni e acquitrini. I pochi terreni messi a coltura inframmezzano aree lasciate a pascolo o a brughiera.
Le strade. L’impianto stradale che attraversa il territorio non è certamente a reticolo; solo sul confine est, il residuo della centuriazione evidenzia qualcosa di geometrico (tra san Fiorano, Oreno e Velasca tracce evidenti di rettilinei solcano i terreni agricoli, e in qualche antico sentiero affiorano ancora i resti del fondo fatto di cocci) per il resto l’andamento viario sia del paese che degli accessi è un susseguirsi di curve e giravolte a seguire i “paleo-solchi” delle Molgorane.
Nella mappa odierna il tracciato delle Molgorane, che ancora oggi, con andamento in parte deviato, (Largo Arienti), attraversano il sottosuolo di Arcore.
In prossimità del Largo citato, alla confluenza dei due rami, la probabile collocazione del castello dei Valvassori d’Arcore
L’ipotesi sulla collocazione è avvalorata, oltre che dalla tradizione popolare che indica come “zona del castello” quella parte di Arcore compresa tra via Abate d’Adda e via San Gregorio, da quanto riportato sulle mappe del Catasto Teresiano (1722) che indicava l’odierna via Monte Grappa come “Strada del Castello”.
In queste due fotografie, scattate da Carlo Bestetti nel 1962, possiamo apprezzare attraverso le due viste, la prima ripresa da via Piave e la seconda da via Abate d’Adda, il complesso della cascina Morganti nota anche come “Curt di Batof”, che sorgeva sull’attuale largo Arienti. Possiamo ipotizzare la costruzione quale ultimo retaggio di ripetuti rimaneggiamenti dall’antico Castello. Segnaliamo nella prima fotografia, sull’angolo di sinistra in alto, la presenza del vano di una finestra “ad arco acuto”, particolare che potrebbe rimandare ad un resto di una possibile torre del maniero.
Attraverso le fotografie riprodotte, e sulla scorta della documentazione relativa al percorso dei corsi d’acque della Molgorane, Tonino Sala ha “schizzato” le due viste proposte del Castello dei Valvassori d’Arcore, così come poteva presentarsi in quel 1237, quando Alberto d’Arcore vi fu condotto ormai cadavere…
Fatta la curva, dove iniziava la leggera discesa che conduceva al castello, il carriaggio, trainato da un mulo, veniva giù lentamente lungo l’acciottolato che costeggiava l’argine della Brigolana. Seduto sulla stanga a gambe penzoloni Orbizzo teneva le briglie e pungolava l’animale con un ramo di salice. Alcuni uomini a cavallo lo scortavano.
Dalla spalliera dell’argine dove stava insidiando le ultime rane Ottone alzando lo sguardo vide il movimento e urlò verso il ponte che immetteva al cortile:
– Arrivano!
Dalla pusterla uscì la guardia posò l’alabarda e mise bocca al corno cavandone una specie di muggito prolungato: nelle alte stanze Adelberto e Tuniza si abbracciarono avviandosi verso la scala che dava sull’androne del cortile. Si aprì una finestra che dava sulla via e si affacciarono la serva e il medico; dal fossato la lavandaia risalì gli scalini di mattone e venne sulla strada; lo stalliere smise di strigliare il morello, tenuto per la cavezza dal garzone, e uscì sul ponte; i ragazzini smisero i loro giochi e corsero verso il carro che si avvicinava. Le quattro guardie si rassettarono, afferrarono picche e spadoni e si prepararono allo schieramento d’onore; dalla cucina, le donne che stavano allestendo per il pranzo vennero al parapetto del loggiato che dava sul cortile; il tramestio mise in animazione i cani che iniziarono a correre abbaiando verso l’esterno.
Il carriaggio passato il ponte entrò lentamente nella corte, Orbizzo saltò a terra, fermò e tenne il mulo per la correggia pendente dal morso; gli armigeri della scorta smontati dai cavalli affidarono gli animali allo stalliere e si affrettarono attorno al veicolo dal quale vennero rimossi i teli di copertura. Le guardie d’onore deposte le armi si avvicinarono anch’esse; dall’androne uscirono Adelberto e Tuniza sostenendosi l’un l’altro; Lanfranco, il capo degli armigeri che avevano scortato il carro, si reggeva in piedi a malapena, con gli abiti sbrindellati, l’armatura slabbrata e ammaccata e le braccia ancora coperte da sangue raggrumato, si avvicinò loro, li strinse in un solo abbraccio baciandoli sulle guance mentre singhiozzando mormorava, quasi tra sé:
– Era circondato da una decina di saraceni!… si è battuto come un leone… eravamo troppo lontani nella battaglia… siamo stati respinti… per difenderlo… da quindici che eravamo per portarlo fuori dalla mischia siamo rimasti in quattro… ah, quei bergamaschi traditori…
La salma giaceva sul pianale del carro, coperta da qualche indumento, ancora intriso del sangue suo e dei saraceni, che seccando formava delle macchie scure; gocce di siero acquoso giallastro ne disegnavano la sagoma sul fondo del telo sul quale giaceva; tagli, scarificazioni profonde appena orlate di rosso e tumefazioni blu-verdastre ne deturpavano il candore livido.
Il carpentiere e il fabbro, usciti dall’officina dietro le stalle, vennero ai piedi del carro, quattro uomini sollevarono il telo per le cocche e vi depositarono il corpo. Sotto l’androne era già stato predisposto un catafalco sul quale fu appoggiata la barella. Arrivarono alcune donne reggendo abiti, addobbi e un secchio per i lavacri, la salma era pronta per l’esposizione.
Intanto al portone d’ingresso, dalle corti del paese e dalle contrade già cominciavano ad affluire, riempiendo man mano il cortile, parenti, amici e conoscenti, massari, aldi e servi che venivano a rendere omaggio alla famiglia e al morto. La guardia d’onore oltre a scortare il catafalco era impegnata a regolarne il flusso e a tenere libero l’accesso.
Poco dopo, su alcune lettighe portate da muli e scortate da un piccolo gruppo di armati, arrivarono al ponte la moglie del defunto, coi giovanissimi figli e la madre di lei. Discesa dalla lettiga, la vedova con al seguito la madre e i figli formò un mesto corteo verso l’androne dove a lato del catafalco, su un leggero rialzo i genitori del morto stavano su due poltrone curiali a ricevere gli ossequi e le condoglianze dei visitatori: si alzarono volgendosi verso la nuora, visibilmente angosciata, che si lasciò cadere in ginocchio, abbracciando le gambe di Tuniza. Adelberto la sollevò prontamente. Sospiri, lacrime, lamenti, abbracci stretti da togliere il fiato furono scambiati fra i componenti il gruppo.
Da Milano, per la strada reale, giungeva il podestà Macassola, a cavallo, con le sue guardie.
Da Vimercate, a dorso d’asino, il prevosto, Guglielmo dei valvassori di Oldaniga, coi cappellani di Bernate, del Bruno e di Arcore, erano venuti al paese. La processione vedeva ora entrare le benedettine dei conventi di San Martino e di Sant’Apollinare portando ceri accesi, reso omaggio alla salma e ai parenti si erano poi disposti intorno al catafalco. I frati di Oreno, appena insediati dopo la donazione del Castellazzo fatta loro dal Cavaliere del Bruno, cognato del quondam prevosto Tedaldo dei Valvassori di Oreno, vennero, con lo stesso Cavaliere, a rendere onore alla famiglia e suffragio al caduto.
Anche gli Umiliati infagottati nelle loro grezze lane biancastre e nere, poco dopo, dai loro laboratori sotto i Ronchi, fecero la loro apparizione, passarono salmodiando il ponte e si collocarono sotto l’androne ai lati del catafalco.
Il console, il postiere (l’incaricato della raccolta della gabella del sale), e gli ottimati, si presentarono nel cortile in pompa magna con le insegne delle loro cariche portate da giovani garzoni, fecero le loro riverenze e si disposero a un lato dell’ingresso.
Non mancò dai vici e loci del circondario il resto del parentado.
Per dare inizio alla cerimonia funebre si aspettava solo l’arrivo dei rappresentanti della Lega e del feudatario. Poco dopo, preannunciati da un gran movimento, uno stuolo di cavalieri si fermò di fronte all’ingresso del ponte, smontarono, si ricomposero a corteo, entrarono in cortile e inquadrati marciarono verso il luogo dove era stata esposta la salma. Col Capitaneo da Vimercate, avevano viaggiato dalla Valsassina, dove avevano trovato riparo, condotti da Pagano, dopo lo scontro con gli imperiali, con loro erano alcuni dei capi scampati alla battaglia: il da Monza, il Terzago, il della Torre con le loro scorte armate. I genitori di Alberto andarono incontro e nel silenzio totale si scambiarono abbracci, poi al gruppo si unirono anche Lanfranco e i suoi compagni: ognuno aveva qualcosa da raccontare sull’agguato, sulla perdita del Carroccio, sull’interminabile lista dei deceduti, mentre già si facevano propositi di rivalsa.
Risaliva ai Liguri, agli Etruschi e via via a Celti, Romani e Longobardi l’uso, non dimenticato, di onorare il morto offrendo cibarie ai partecipanti la veglia. Nelle capaci cucine del castello uno stuolo di donne si era affaccendato fin dalle prime ore del mattino mondando, impastando, uccidendo, spellando e cocendo; una lunga tavolata era pronta nel salone interno. Non si sarebbe trattato di un vero e proprio banchetto: ognuno avrebbe consumato qualcosa in una comunanza che legava i vivi al morto. Il momento conviviale non mancava del contorno di chi avrebbe, dalla parlera, esaltato i meriti, le qualità fisiche, morali e il valore guerresco del defunto Alberto d’Arcore.
Una guardia salita sulla loggia mise bocca al corno lanciando il segnale di inizio della cerimonia. Si mossero per primi Adelberto e Tuniza ai quali si accodarono in un preciso ordine gerarchico, personalità, parenti, amici, armati e via via tutti gli altri. Quelli che non avevano trovato posto alla tavola sarebbero stati serviti direttamente dalle fantesche. Religiosi e clero non si mossero, rimasero nell’androne intorno al catafalco: solo dopo le sacre cerimonie avrebbero avuta la loro parte in un convivio più intimo col castellano.
Il simbolo di celebrazione di fraternità e di condivisione fu dato da una capace coppa, fatta girare e rabboccata alla necessità, dalla quale ognuno beveva un piccolo sorso, si cominciò poi a consumare quanto preparato sui tavoli.
Si levò a parlare Lanfranco, scudiero e amico di Alberto:
È triste essere qui oggi a narrare la vicenda e a tessere l’elogio funebre del compagno col quale sono cresciuto e ho condiviso i giochi, le scorrerie della fanciullezza, i castighi, le punizioni dai precettori, le veglie invernali al caldo delle stalle nell’ascolto delle storie dei nostri avi, le cacce nella foresta, la scoperta dell’amore, le sfide cavalleresche e infine quest’ultima avventura.
La sera del 26, convinti che i ghibellini, avevessero smobilitato, per l’approssimersi dell’inverno, ci eravamo accampati, dopo due giorni di cammino nei pressi di Pontoglio, per superare il fiume, la mattina dopo, e dirigerci anche noi verso casa. Nonostante la tensione si fosse allentata, la defezione dalla Lega dei Bergamaschi imponeva prudenza nel tenere celato il movimento della truppa. Disposti lungo l’argine gli uomini avevano passato la notte senza accendere fuochi; alcuni pescatori, venuti alla riva cercavano di barattare il loro pesce. Mi sembrò di riconoscere, nel gruppetto che disputava, Gottardo, un mercante di Martinengo col quale la mia famiglia aveva una lontana parentela. Lo vidi stringere la mano al pescatore, scendere alla riva, montare insieme su una barca, afferrare i remi e risalire il fiume sotto costa sparendo nel buio.
Nella notte furono gettate passerelle sul guado verso l’altra sponda e all’alba iniziò il passaggio. La lunga fila degli armati, rallentata dal guado, doveva concentrarsi a un cascinale, poco oltre il passaggio, per riassumere lo schieramento prima di continuare verso Cortenuova. La marcia procedeva per sentieri attraverso i campi su un terreno piano inframmezzato da boschi.
All’improvviso, dagli alberi poco oltre il cascinale si precipitò sulla colonna una canea di milizie che trovò i nostri impreparati: parte non aveva ancora guadato il fiume, parte ormai quasi a Cortenuova aveva rallentato per riformare i ranghi e procedeva in ordine sparso mentre sia davanti che ai lati gli imperiali usciti dai boschi ci stringevano in una morsa.
Del primo gruppo, 120-150 uomini, non si salvò nessuno: ognuno aveva contro cinque o sei imperiali che ne facevano scempio; il secondo gruppo riuscì a fare quadrato intorno al cascinale ma la potenza d’attacco era soverchiante: gli assalti di cavalleria sbandavano i ranghi dividendoli e le fanterie incalzavano senza requie le linee divelte; dal terzo gruppo, che man mano passava il guado, alcuni squadroni di cavalleria si gettarono nella mischia difendendo i fanti che a passo di corsa cercavano di raggiungere il cascinale dove organizzare una difesa accettabile. Si era concluso nel frattempo il passaggio del fiume e ogni capitano raccoglieva intorno a sé i suoi armati formando isole di resistenza su tre file: le lunghe picche abbassate, poi le alabarde e inframmezzo azze, spade e mazze; dal centro gli arcieri tiravano a parabola. Il massimo delle perdite si verificò sulle colonne che prime avevano passato il fiume.
Gli imperiali che a folate si gettavano sui nostri erano tedeschi, siciliani, saraceni e bergamaschi con parecchie linee di cavalieri. Al primo allarme Alberto aveva riunito il nostro manipolo: una decina di cavalieri e una cinquantina di fanti, muovendo in soccorso delle isole che non riuscivano a sopportare la pressione d’attacco; a ranghi compatti già varie situazioni di cedimento erano state tamponate, mentre si tendeva a riunirsi più stretti intorno al Carroccio. Si combatteva già da ore, correndo a destra e a manca dove era più necessario l’aiuto sempre spronati dalla voce di Alberto che incitava alla lotta, ma grazie al nostro valore non avevamo subito molte perdite. In un momento di stasi, eravamo al bordo di un sentiero, sul margine di una macchia di noccioli e castagni, sbucò dal folto una moltitudine di saraceni e bergamaschi che ci mise in mezzo. L’urto ci colse un po’ sbandati e Alberto fu subito separato dal resto dei compagni, Umfredo lo segnalò immediatamente e io cercai di radunare i nostri per portargli aiuto ma ci trovavamo davanti una muraglia di gente, lo vedevamo tirare colpi su colpi, travolgere fanti e cavalieri ma la schiera di attaccanti non finiva mai. Fu colpito il cavallo, balzò di sella con l’azza in pugno faceva mulinello tra i fanti avversari, noi stavamo guadagnando terreno pian piano avvicinandoci ormai a non più di una decina di passi. Da dietro gli stava andando addosso un cavaliere: Gottardo, traditore! con una spinta lo rovesciò a terra, quando finalmente riuscimmo ad arrivargli appresso per difenderlo era steso nel suo sangue riverso su un cumulo di feriti, mentre stava arrivando in nostro soccorso un altro gruppo guidato dal Terzago. Coi residui del nostro drappello lo rialzammo per portarlo verso il cascinale dove avremmo cercato di tamponargli le ferite, ma si vedeva che la vita lo stava abbandonando. Il soccorso dei Veronesi e degli armati di Pagano della Torre era ormai inutile. Gli imperiali avevamo perso il Carroccio, i nostri morti superavano il migliaio e Pietro Tiepolo, uno dei capi della Lega, era stato preso prigioniero.
Pagano e gli altri comandanti ordinarono il ripiegamento verso l’Adda, Lecco e la Valsassina dove riprendere le forze e riorganizzare la resistenza; da parte nostra, inviato un messaggero e caricato il cadavere di Alberto ci incamminammo verso Arcore.
Cosa era successo? Gottardo, con altri bergamaschi di pianura si era infiltrato tra i militi e una volta raccolte le informazioni necessarie era volato ad informare gli imperiali che erano già in movimento verso Cortenuova. Fu cosa facile tendere un agguato e sorprenderci senza difesa.
L’arcivescovo Landolfo, esule e desideroso di trionfare sui suoi nemici, nel 983, per difendersi dai partiti avversi e legarsi gli ottimati dell’aristocrazia milanese, concesse loro in feudo le pievi della sua diocesi già possedute dal clero cittadino, creando quella nuova gerarchia di vassalli dell’arcivescovo, detti capitanei, capi di una pieve, che gli fornirono armati dentro e fuori della città.
A Vimercate e sua pieve l’investitura fu assegnata ai capitanei del luogo; mancando il documento di investitura, non è noto se la famiglia de’ Capitani di Vimercate, destinataria del feudo ebbe il vassallaggio della pieve omonima in quell’occasione o se ne fosse già titolare, anche se il titolo Capitani indurrebbe a crederli nominati da Landolfo; comunque la famiglia dei ‘da Vimercate’, distribuì a sua volta poteri e territori a valvassori scelti tra i limitrofi nobili del contado già possidenti in proprio; fra questi, nel territorio arcorese, con proprietà fondiarie nel luogo, i della SALA(?): una stirpe di antica origine – risalente ai Longobardi dalle cui toponimie trasse il nome – già diffusi all’epoca, con ramificazioni in Milano e nell’intera regione, ebbero, l’assegnazione del pago.
Quando poi, Corrado II, nel 1037, con la Constitutio de feudis, liberò i valvassori dalla soggezione ai vassalli, stabilì sul luogo una vera e propria signoria dove il castellano dettava legge e faceva giustizia.
Nel tempo, nascendo la necessità di distinguere le famiglie non più identificabili col solo nome (rammentiamo che all’inizio dei Comuni, quando si cominciò a rinominare gli individui, in particolare agli inurbati in massa già all’epoca delle incursioni degli Ungari, vennero attribuiti per buona parte cognomi tratti dal nome dei paesi d’origine: il complemento di provenienza diventava cognome), e con lo stesso cognome ormai inflazionato, si ricorse alla antica forma “tria nomina” caratterizzando i clan con aggettivi variamente originati.
Ci fu una famiglia ad Arcore, che per secoli, a complemento del proprio cognome, portò un sostantivo aggettivato: VESCOVO, eredità storica risalente alla seconda metà dell’XII secolo quando Galdino, un membro dei Valvassori della SALA, fu chiamato alla guida della diocesi milanese avendo anche la ventura di essere, con altri, nel 1167, fondatore della Lega lombarda e, nel 1176, guida dell’esercito della Lega durante la battaglia di Legnano.
Alla famiglia in questione fu attribuito come distintivo, aggettivandolo, il nome della carica del suo membro più illustre: VESCOVO.
Gli ultimi rappresentanti arcoresi di questa famiglia che usavano chiamarsi ancora con il doppio cognome: SALA VESCOVO (in vernacolo, Sala di Vescuf) si spensero nella prima metà del ‘900 e i loro discendenti, numerosi e ancora in circolazione, ne hanno tralasciato l’uso dimenticando l’antefatto storico quasi completamente, perdendone, con la memoria, una parte del loro DNA.
Nel mese di novembre del 1237 i Comuni sono sconfitti a Cortenuova da Federico II.
Federico II e i Comuni nell’Italia settentrionale
Il regnum Italiae non apparteneva a Federico II allo stesso titolo e con le stesse prerogative di quello di Sicilia, tuttavia egli mirò sempre a ridurlo sotto la sua soggezione quasi totale e lo governò in maniera non molto diversa da quella usata verso gli altri suoi sudditi; anche la divisione in cinque vicariati era stata fatta per poter controllare meglio il territorio centro-settentrionale e imporre obblighi a quegli abitanti scavalcando i punti ormai acquisiti dopo la pace di Costanza. Le zone erano rispettivamente: da Trento all’Adige, da Pavia in su (Piemonte e Milanese) e da Pavia in giù (Liguria ed Emilia), la Romagna, la Toscana; un legato generale sovrintendeva ai singoli vicari e tutelava i diritti imperiali davanti ai Comuni e ai signori feudali.
Per lungo tempo Federico non poté tradurre in pratica i suoi propositi di potenza, si limitò a dichiarazioni di principio o a scaramucce, acconsentì ad accordi parziali o a interventi esterni (papali) pro bono pacis, ma nel quarto decennio del XIII secolo, in parallelo con la riorganizzazione del suo Stato siciliano e collegata con le vicende tedesche, egli intraprese una energica azione politica e giurisdizionale intesa a fare anche del regno italico un blocco compatto che funzionasse al suo servizio e riconoscesse la sua autorità diretta; l’iniziativa s’intrecciava, come sempre con una molteplicità e varietà d’interessi locali e provocò mutamenti, colpi di scena, reazioni, ma la novità più felice per l’imperatore fu il passaggio nel so campo di Ezzelino III da Romano (1232), che riuscì anche ad occupare Verona facendone la base per il transito delle truppe tedesche da e per la Germania.
L’anno successivo è indicato con il nome di ‘anno dell’Alleluja’ per un grande movimento popolare religioso che dilagò rapidamente nel Nord su impulso di un fra Benedetto, che non apparteneva a nessun ordine, era illetterato, girava malvestito predicando la pace e la penitenza (un cronista coevo, fra Salimbene, ci dice che «pareva quasi un altro Giovanni Battista, che a Dio volesse preparare un popolo perfetto») e che ottenne successi strepitosi quanto effimeri; inoltre fu imitato da altri (ad esempio fra Giovanni da Vicenza, domenicano), che trasferirono l’entusiasmo delle folle sopra un piano diverso accendendo l’odio contro gli eretici e occupando castelli e fortezze per amministrare da dittatori la cosa pubblica. La reazione dei politici venne naturale e immediata e tutto tornò come prima, ossia con gli odi di partito e le violenze delle fazioni nonché con l’antagonismo tra imperiali e cittadini liberi.
Il tempo aveva lavorato in favore dell’imperatore e verso il 1236 egli poté sferrare il colpo decisivo contro i Comuni; questi rinnovarono subito la Lega e si appellarono ancora al papa (che sentenziò in loro favore); ma l’altro ebbe aiuti militari dalla Germania e fece affluire milizie saracene dalle Puglie; inoltre alcune città erano dalla sua (Cremona, Pavia, Parma, Modena, ecc.), per non dire di Ezzelino (invece il marchese Azzo VIII d’Este gli era fieramente avverso). L’impresa era sostenuta da entrambe le parti con solenni dichiarazioni dottrinali, con una polemica ideologica violenta nella quale alla teoria “cesaristica” si contrapponeva quella teocratica, ma l’una come l’altra poggiavano su labili fondamenti, sopra idee sorpassate.
Provvisoriamente la parola rimase alle armi: un lungo assedio di Federico a Mantova fallì, ma Vicenza fu presa e terribilmente saccheggiata; anche Padova e Treviso caddero in mano a Ezzelino e Bergamo passò ai ghibellini; di conseguenza l’esercito imperiale poté investire Brescia rimasta isolata e gli avversari si trovarono di fronte sul fiume Oglio.
Con un inganno Federico poté assalire i Lombardi alla sprovvista e, dopo una dura battaglia a Cortenova (27 novembre 1237), sbaragliarli, facendo centinaia di morti e migliaia di prigionieri e prendendo il carroccio milanese, che fu mandato a Roma come trofeo di vittoria accompagnato da una lettera altezzosa e da scritte ammonitrici: «Urbs, decor Orbis, ave: Victus tibi desitinor, ave, / Currus ad Augusto Friderico Caesare iusto. / Fle, Mediolanum, nam sentis spernere vanum / Imperii vires proprias tibi tollere vires. – Ergo triunphorum potes Urbs memor esse priorum / Quos tibi mittebant reges, qui bella gerebant» (Salve, Roma, onore del mondo: l’imperatore augusto Federico ti ha destinato il carro dei vinti. Piangi, o Milano, e impara che è stolto disprezzare la forza imperiale tentando di abbattere la potenza con le tue energie. Roma potrà essere memore delle antiche glorie che i vincitori passati ti inviarono dopo aver vinto la guerra).
Parve per un istante che la vittoria imperiale fosse completa e definitiva: molte città si sottomisero, in Roma il partito filo-federiciano dei Frangipane trionfava, numerosi re occidentali inviarono cavalieri e soldati in omaggio, le dichiarazioni del titolare si facevano sempre più esplicite e intransigenti pretendendo la giurisdizione piena e una dedizione assoluta; fu proprio tale intolleranza – e la violenza a cui non mancò di abbandonarsi contro i nemici a perdere Federico «ex tunc coepit imperator favorem amittere, quia factus est tyrannus inexorabilis» (da quel momento l’imperatore cominciò a perdere la simpatia di molte persone perché si era trasformato in un insopportabile tiranno). Milano, al solito, diede l’esempio rifiutando di sottoporsi a condizioni umilianti e ripetendo, come aveva già detto al Barbarossa, che è meglio morire in guerra che essere distrutti o asserviti: «timemus tuam feritatem, edocti experimento» (temiamo la tua sperimentata crudeltà). Brescia resistette “leoninamente” a un duro assedio malgrado i più crudeli espedienti a cui l’altro ricorse (legò prigionieri bresciani davanti alle macchine di guerra); le province periferiche ripresero ad agitarsi; una coalizione antimperiale si formò con aiuti esterni. La stella di Federico aveva ormai passato rapidamente lo zenit.
Da “Arcore medievale”
A Cortenova si svolse una battaglia sostenuta dall’imperatore Federico II contro l’esercito milanese della seconda Lega Lombarda, il 27 novembre 1237. Le truppe milanesi, sorprese in marcia, resistettero fino a sera e si ritirarono nella notte; incalzate l’indomani dalla cavalleria imperiale, ebbero gravi perdite.
Scrive Giovanni Dozio in “Notizie di Vimercate e sua Pieve”:
«…Arcore fu terra di qualche significanza nel medio evo. Ebbe un castello in luogo che tuttora ne conserva il nome, posseduto nel secolo dodicesimo dai Valvassori d’Arcore: signorile famiglia, a cui credo appartenesse quell’Alberto da Arcore, che, dopo aver dato prove di valore, morì nella battaglia di Cortenova nel bresciano, combattuta nel 1257 (sic) contro Federico II e perduta dai milanesi, inferiori in numero di oltre la metà del nemico…»
E Ignazio Cantù in “Le vicende della Brianza” :
«…Abbiamo già detto come i Lombardi, appena usciti dal timore di Federico Barbarossa, ricaduti nelle contese fraterne, si uccidevano tra loro per soverchianza di forze e per misero amor di parte. Ma saputo che Federico II minacciava riaccendere all’Italia i disastri del respinto Barbarossa, ricomposero gli interni dissidi ed in una nazionale unione giurarono di nuovo i capitoli della Lega Lombarda.
«Intanto che i nostri si preparavano alle difese, l’Imperatore trasse in Lombardia gran treno di nobili e baroni, con vigoroso esercito di Germani e Saraceni della Sicilia e della Puglia, e poche settimane dopo nel territorio di Bergamo, s’affrontava ai confederati disposti ad accoglierlo col coraggio di chi combatte per sé, per le donne, pei figli, per le ceneri degli avi.
«Non è nel nostro assunto narrare partitamente le vicissitudini della battaglia combattuta a Cortenova sull’Oglio il 27 novembre 1237, dove i milanesi guidati da Enrico da Monza, Jacopo Terzago, Pietro Tiepolo e Giovan della Torre cedettero al numero maggiore, e si sbandarono disordinati lasciando il campo gremito dei loro cadaveri, perdute bandiere e Carroccio, che il vincitore Federico trasportò sul Campidoglio, e ve li depose con superba iscrizione.
«La nuova di tanta calamità si diffuse subitamente nelle terre vicine, e ai poveri milanesi scampati si diceano sovrastare nuovi guai per opera de’ Bergamaschi, in quell’occasione sorti vilmente a parteggiar con il più fortunato. Non appena n’ebbe contezza Pagano della Torre, signore del Val-Sassina, noto tra i più distinti guerrieri del suo tempo, uomo di sensi generosi, ed uno fra quelli che avevano giurato la rinnovazione della Lega, raccolti i robusti della sua vallata, e postovisi a capo con Antonio De’ Matti di Tondello precipitò in traccia dei fuggitivi, li radunò in Pontida, e attraverso le nemiche terre bergamasche, li guidò in sicuro ne’ suoi monti ove li tenne, finché poteron ritornar salvi alla città nativa.
«Tutt’altro che menar vanto di questa vittoria, Federigo la pagò a caro prezzo, quando ritornò alle mani coi Milanesi, nelle pianure di Carpognano.
«Era un bel giorno di primavera; tutto pace, sorriso, allegrezza nella pacata natura; l’uomo solo, non partecipava a tanta calma e dolcezza, e i due eserciti schierati ardevano di combattere. L’Imperatore per conoscere minutamente gli avversari, tolto con sé un disertore milanese, che era entrato nelle sue soldatesche, salì sull’alta Torre degli Stampi. E veduta una torma di gente bellissima, voltosi al soldato che gli stava accanto gli disse “ E’ veramente nobile la tua città, poiché ha tali uomini!” a cui l’altro rispose: “Quelli non sono che i Sepriesi: vedete là una moltitudine robusta (ed accennava con la mano) che freme dal desiderio di combattere?, Sono gli uomini di Cantù, di Vimercate e della Martesana.” Al che l’Imperatore stupito esclamò: “Oh quanto vasta e popolosa è la Martesana!”. Né minore meraviglia recò al principe la vista degli uomini della Bazana, della Bulgaria col Carroccio vestito di scarlatto, colla croce d’oro e il magnifico vessillo di sant’Ambrogio, e questo senso di stupore non tardò a mutarsi in quello di ansietà. Poco dopo i Milanesi, fatte le solite religiose cerimonie, allargarono il campo nemico ravviluppandolo in un labirinto di fossati, abbassarono le lance, contro gli imperiali, ne fecero uno sterminio, cacciandoli da tutte le parti davanti ai colpi micidiali, molti uccidendone sul campo, più assai traendone prigionieri con parecchi cavalli a Milano. L’Imperatore, sperando miglior fortuna in altro combattimento, raccolse i fuggiaschi e li condusse a Cassino-Scanasio, ma suo mal costo! Poiché i Milanesi con uno strattagemma assalitolo d’improvviso qui pure l’investirono con tale violenza, che di nuovo lo posero in fuga, inseguendolo con tanta insistenza, che molti imperiali furono uccisi, e molti affogati nella furia di varcare il fossato del Ticinello…»
E Franco Fava in “Ti racconto Milano”:
«…Ecco in breve sintesi il curioso destino di Milano in quei primi anni del XIII secolo: mentre collezionava una serie impressionante di successi traendo nella propria orbita gran parte dei Comuni dell’Italia nord-occidentale, non riusciva a trovare pace entro la cerchia delle mura: nobili, cives e artigiani erano in continuo contrasto tra di loro, gli uni per la conservazione del potere, gli altri per la scalata al potere. Le stesse classi erano divise a loro volta in fazioni, in perpetuo disaccordo sulla politica da adottare e sulle rivendicazioni da fare. E gli scontri si susseguivano, da semplici scaramucce a veri e propri accenni di guerra civile. E intanto Milano continuava a ingrandirsi: l’incremento della popolazione, favorito dall’inurbamento dei rustici, il gran giro d’affari, il peso politico crescente, facevano ormai di lei la prima città della penisola, ma anche, purtroppo, la più turbolenta. Arcivescovo e nobiltà si fronteggiavano continuamente con i borghesi e i popolani, mentre le istituzioni comunali tentavano di mantenersi nel “giusto mezzo”: la costruzione del Broletto Nuovo (1128-1233) fu (al di là delle reali esigenze di una nuova sede in cui sistemare più agevolmente uffici pubblici e tribunali) una chiara presa di posizione: la sede politica doveva essere, anche fisicamente, staccata dalla sede religiosa.
Nel 1226 venne rifondata la Lega Lombarda, tra Milano, Bologna, Brescia, Mantova, Vicenza, Padova e Treviso, allo scopo di opporsi alle mire del nuovo imperatore, Federico II, che intendeva riconquistare l’Italia Settentrionale.
Il primo scontro con le truppe imperiali fu a dir poco catastrofico: nel 1237 l’esercito della Lega venne sbaragliato a Cortenuova. Ma fu un episodio senza seguito: negli anni a venire i milanesi sconfissero ripetutamente l’imperatore, che non riuscì mai a raggiungere il suo intento.
Ma intanto a Milano la lotta fra le classi continuava a mietere vittime, e a ben poco era servita anche la nomina a capo del partito popolare (per la precisione il titolo era Capitano del popolo della Credenza di Sant’Ambrogio) di un nobile benemerito, Pagano della Torre, che purtroppo morì appena un anno dopo. E ancor meno servì, nel 1241, la nomina di un membro della stessa famiglia, Martino, a Anziano della Credenza di Sant’Ambrogio, una carica i cui poteri superavano in parte anche quelli del podestà… »
E’ scritto in “Conoscere l’Italia”
«…Gravi conflitti scoppiarono quando si trattò di prendere posizione verso Federico tra il 1220 e il 1225, nel periodo in cui il sovrano tenne, nei confronti del papato, dei comuni, dell’Italia intera, quell’atteggiamento ambiguo, che gli permise di predisporre le sue future offensive, in vista di una restaurazione imperiale avente la sua base nella penisola, che avrebbe fatto scomparire del tutto i Comuni. Ma nel 1226, quando Federico II scoprì le sue carte, e dimostrò di voler riaprire la partita che il suo avo Barbarossa aveva chiusa con la pace di Costanza, cioè con una capitolazione, Milano aderì prontamente alla seconda Lega lombarda, si schierò dalla parte della Chiesa, bandì o sterminò, come eretici, autentici eretici o soltanto amici dell’imperatore, ricorse anche alla congiura per sollevare contro di lui il figlio Enrico e quanti più nemici fosse possibile. Ma in questa lotta, Milano fu assai meno fortunata che in quella contro il Barbarossa: a Cortenuova sull’Oglio (novembre 1237), il suo esercito fu travolto dai tedeschi, lombardi, siciliani e saraceni sotto le insegne sveve, e perdette molti uomini tra caduti e prigionieri (10.000 secondo le fonti imperiali, meno di 1.000 secondo le milanesi), tra i quali il podestà (Pietro Tiepolo, figlio del Doge di Venezia), che fu trascinato via insieme al Carroccio e finì impiccato. Battuti i Milanesi, Federico II assediò Brescia, che dopo Milano era il maggior sostegno della Lega; questa si ridusse allora, da una quindicina, a sole quattro città: Milano e Brescia, sconfitte ma decise a proseguire la lotta, Bologna e Piacenza. Le conseguenze di Cortenuova non furono tuttavia quelle che Federico II aveva prevedute; la vittoria non cancellò Legnano, non permise al vincitore di ridurre i vinti alle condizioni anteriori alla pace di Costanza; l’imperatore credette di aver vinto una guerra, mentre aveva vinto solo una battaglia, e l’errore di valutazione gli costò carissimo. Milano stimolata alla rivincita si preparò a conquistarsela. Se il morale dei Milanesi non crollò dopo Cortenuova, che fu grave in sé, ma apparve assai più grave alla luce della propaganda fattane da Federico II, fu merito di Pagano della Torre, signore della Valsassina, che raccolse e riordinò l’esercito sbandato, lo ospitò nelle sue terre, lo riconfortò e lo ricondusse infine a Milano, non intatto ma neanche disfatto, e in condizione da poter ricominciare a combattere. L’occasione infatti non si fece attendere molto: fra il 1239 e il 1245 i Milanesi e la Lega bloccarono gli ultimi tentativi dell’imperatore di sottomettere la Lombardia. Alla guerra contro Federico II i papi Gregorio IX e Innocenzo IV diedero sempre il carattere di una crociata: a Milano si costituì quindi una specie di stato maggiore ecclesiastico-militare, diretto dal legato pontificio, dall’arcivescovo, dal grande inquisitore, i quali tennero viva quella mistica e bellicosa eccitazione, che conveniva a una crociata, e pervadeva gran parte della Lombardia e del Veneto. Tutto ciò riportò l’arcivescovo a una posizione preminente anche sul terreno politico, resa particolarmente temibile dalla persecuzione degli eretici estesa ai fautori della parte imperiale, ghibellina. Si distinsero in questo senso i vescovi Guglielmo da Rizolio e Leone da Perego, e il podestà Oldrado da Tresseno, che come persecutore di eretici è elogiato in un bassorilievo del Broletto…»
E in “Dizionario universale del medioevo”
«Battaglia di Cortenuova (1237) – Fu combattuta allorché Federico, dopo aver riordinato il regno di Sicilia, pretese di riconquistare l’obbedienza dei Comuni lombardi e per domare la Lega rivendicò apertamente all’impero l’incontrastato dominio di tutta la penisola italiana. Allora, occupate Mantova, Treviso e Vicenza, affrontò l’esercito della Lega Lombarda a Cortenuova e riuscì a sconfiggerla del tutto, impadronendosi perfino del Carroccio di Milano, inviato a Roma come trofeo perché fosse degnamente custodito nella sede legittima dell’impero. Per Federico insomma, Cortenuova fu il regolamento dei conti con i Comuni italiani dopo la sconfitta di Legnano inflitta al nonno Federico I nel 1176.»
Il Dizionario è compilato da un americano che non si è degnato di approfondire la notizia, limitandosi a ricalcarla e neanche troppo fedelmente da altre. È tipico degli autori americani, quando parlano di storia, il dare interpretazioni parzializzate, partigiane e incomplete. Se l’avesse fatto, approfondire la notizia, avrebbe scoperto che si trattò di un’imboscata derivata dal tradimento bergamasco non solo ma che qualche tempo dopo Federico subì dalla Lega una disfatta tale che lo lasciò peggio di quanto non era stato per suo nonno e che i Comuni ne uscirono rinforzati nelle loro autonomie.
In origine, prima di essere luogo di insediamento, la zona è solo un nome, caratterizzato dall’ambiente, che si trascina nel tempo e che rimane, sia pure deformato, man mano il luogo si evolve in una colonia con inizi di allevamento e agricoltura, fino ad arrivare, dopo le devastazioni barbariche, a costituire il dominio di qualche signorotto longobardo che secondo l’uso briga per aumentarlo o subisce le incursioni riduttive di qualche pretendente a erodergli i confini.
Il diritto di successione longobardo prevede che alla morte del titolare della proprietà la divisione dei beni avvenga in modo uguale tra i figli. Nel mondo franco invece vige la legge del maggiorasco, quindi l’erede è unico. Nel tempo, da successione in successione, il luogo perde l’unitarietà di possesso: le grandi proprietà si sfaldano fra successioni, alienazioni, donazioni e usurpazioni; le uniche a conservarsi e ad aumentare continuamente sono le proprietà ecclesiastiche e monastiche gestite da parentele clientelari o cedute a creare nuovi feudi a garanzia e protezione del potere del vescovo.
Le aggregazioni dei municipi romani, nella diocesi milanese, successivamente all’avvento del cristianesimo, per opera di san Mona, nel III secolo, subiscono la prima divisione in pebanie, costituite da loci e vici ben delimitati alle quali fanno riferimenti diritti di esazione e doveri di amministrazione religiosa.
La circoscrizione religiosa arcorese, determinata in un secondo tempo dalla suddivisione della Pieve nelle varie Parrocchie, importantissima per la definizione delle attribuzioni delle decime e dei diritti di bannio, comprende il territorio di Bernate e il limite sud di Peregallo. I frastagliatissimi confini sono originati da acquisizioni e cessioni di diritti su parcelle di terre adiacenti alle andane dei sentieri residui della centuriazione romana, che, prima di stabilizzarsi definitivamente, passando da un proprietario all’altro, o da un beneficiato all’altro, rendono instabili i termini di confine.
Boschi estesi coprono le colline a nordovest, le coste del Lambro e i confini territoriali del paese verso sud e verso est.
Nel piano, boschi di riviera, delimitano i rami delle Molgorane, che scorrono in un letto profondo circa 3-4 braccia rispetto al livello del terreno e si riuniscono a formare un unico corso all’ingresso dell’abitato dove alcuni ponti li attraversano. Modesti boschetti cedui definiscono le proprietà e seguono i bordi delle strade. Qualche impaludamento, generato dal ramo della Molgorana scorrente al bordo delle colline, causa ristagni e acquitrini. I pochi terreni messi a coltura inframmezzano aree lasciate a pascolo o a brughiera.
Le strade. L’impianto stradale che attraversa il territorio non è certamente a reticolo; solo sul confine est, il residuo della centuriazione evidenzia qualcosa di geometrico (tra san Fiorano, Oreno e Velasca tracce evidenti di rettilineità solcano i terreni agricoli, e in qualche antico sentiero affiorano ancora i resti del fondo fatto di cocci) per il resto l’andamento viario sia del paese che degli accessi è un susseguirsi di curve e giravolte a seguire i paleosolchi delle Molgorane.
L’impianto primitivo del paese è a nuclei distinguibili: al di là della Molgorana Zubai-Tommaselli, sul triangolo della confluenza Bafot, al di qua Bonfanti-Moltani formano un primo nucleo; Corte Mandelli, San Gregorio e Corte Grande un secondo nucleo;
Sala, Borella e Teruzzi un terzo nucleo; Carabinieri e Bita-Vignet, probabile castello, il quarto nucleo.
La chiesa di Sant’Eustorgio, semplice cappella di campagna eretta e mantenuta in servizio a spese del signore del luogo, si trova isolata su un leggerissimo dosso a bordo est della Brigolana sull’angolo formato dalla strada Reale e dalla strada per Oreno, come descrive il curato Tagliasacco anni e anni più tardi: “… Sacrato avanti la Chiesa sostenuto dalla muraglia (F) alto braccia 2.25 di più della strada (I) …”. I monasteri e le frazioni dispersi tra boschi e campagne e, immersa nella foresta una traccia della costruzione che sarà poi il Casino di caccia dei Cazzola.
La povertà e la attuale quasi totale inesistenza di edifici integri o di altri reperti storici medievali non consente di appoggiare alcun discorso su dati concreti; le ultime, relativamente recenti, demolizioni hanno definitivamente cancellato quanto l’evoluzione e il tempo avevano risparmiato (Corte San Gregorio; Cort di Bafot o Corte Morganti e la Cort di Laceé o Corte Teruzzi).
Escludendo il Sant’Apollinare, la cappella e sotterranei del San Martino, integrati dai Giulini nella Villa, del periodo medievale rimangono in paese solo residui di mura e di architetture coperte dalle ristrutturazioni e oggi difficilmente rilevabili nei cortili Zubai, ex Bonfanti, Moltani, Mandelli, Corte Grande; Corte Borella o di Féré e prospiciente Corte Sala; Corte detta ‘dei Carabinieri’; nella casa ex Tommaselli e, sepolte nel rifacimento di inizio ‘900, parti delle mura delle Corti Bita e Vignet.
Alla Visconta qualche traccia nei muri del cortile interno; a Bernate: alcune parti delle tre corti ‘Stalla Alta, di Mezzo e Bassa’, la chiesetta e parte del palazzo ex Durini; al Bruno: la chiesetta e qualche frammento delle costruzioni limitrofe; alla Cà l’impianto attorno ai molini; alla Cà Bianca un residuo di affresco sul muro della cascina ristrutturata, probabile residuo di una primitiva cappella, sono da ritenere di epoca medievale.
Scrive R. Perelli Cippo nei ‘Cenni sulle origini e vicende della Pieve di Vimercate’ in “Mirabilia Vicomercati”:
«…Nelle nostre regioni il termine pieve designò, a partire almeno dai secoli centrali dell’età di mezzo, una circoscrizione ecclesiastica del contado facente capo a una certa chiesa (chiesa plebana), sita generalmente in un centro di qualche importanza (capo-pieve), il cui clero aveva il diritto e il dovere di esercitare la cura d’anime per la circoscrizione stessa. La pievana era la chiesa battesimale del territorio circostante, a differenza delle altre chiese che sorgevano numerose nei centri minori (il numero di queste chiese ‘minori’ aumenta notevolmente fra VIII e IX secolo in tutta l’Italia settentrionale […] per la consuetudine dei possessori fondiari di edificare chiese nei territori di loro pertinenza), il cui clero non aveva il permesso di amministrare i sacramenti e che dipendevano dalla pievana con il nome di cappelle. È anche interessante notare che, a partire dall’XI secolo, quando si affermò la civiltà comunale, e si cominciò ad esercitare un controllo politico sul contado circostante, ci si avvalse delle circoscrizioni ecclesiastiche (le pievi appunto) per organizzarne l’amministrazione. Questo perché non esisteva fino a quel momento una circoscrizione civile capillare e quindi tornava comodo usufruire di quella ecclesiastica già esistente e collaudata; in secondo luogo perché il legame che univa gli abitanti di una pieve, che partecipavano tutti dell’amore e della venerazione per la loro chiesa battesimale, dava in genere un’apprezzabile coesione all’’unità pievana’, intesa sia territorialmente sia come complesso di persone.[…]
Quando si costituì questa organizzazione pievana? Tutta l’organizzazione territoriale ecclesiastica si costituì con un processo secolare, avviatosi agli inizi stessi della diffusione del cristianesimo e procedente parallelamente ad esso (la compattezza dell’unità pievana si mantenne particolarmente a lungo; si frazionò solo a partire dal XII secolo in circoscrizioni ecclesiastiche minori facenti capo alle parrocchie, senza escludere che vi fossero già chiare divisioni territoriali, loci e vici, a definire i vari luoghi che sarebbero diventati poi le parrocchie)…»
Scrive il Cherubini in “l’Italia rurale del basso medioevo”:
«…a molti territori divisi fra più signorie, a conferire unità, furono la comunità rurale e la parrocchia, che ebbe un ruolo di primo piano nell’evoluzione della coscienza collettiva dei contadini. L’identificazione era così forte che il popolo non gradiva quelle unioni ad altre chiese determinate da motivi demografici o economici. Delle croci campestri e delle edicole segnavano spesso i confini della parrocchia, mentre il campagnolo veniva generalmente indicato, oltre che con il proprio nome, con quello del ‘popolo’ di appartenenza. Le processioni che percorrevano i campi per le Rogazioni offrivano un’occasione per la revisione dei confini, dapprima della pieve e poi della parrocchia. […] ci si domanda in qual misura la pieve e le parrocchie siano da ricondurre al sostrato di una corrispondente circoscrizione di pago romano e/o preromano
[…]a stabilire contorni netti delle piccole circoscrizioni parrocchiali, contribuì particolarmente la riscossione della decima, anche se è opportuno osservare che l’assetto territoriale cui tesero i comuni cittadini per poter amministrare la giustizia, riscuotere le imposte, assicurare la difesa, garantire l’approvvigionamento annonario del centro urbano, eseguire lavori pubblici influì sulle circoscrizioni di base o modificandole o ad esse sovrapponendone altre, ma non cancellandone del tutto un certo grado di autonomia. I territori di ‘decimazione divennero comunque, almeno in alcuni casi, ‘unità contributive per le imposte comunali cittadine […] il tradizionale attaccamento ai confini del piccolo luogo acquistò nuovo valore e nuovi motivi di litigiosità. A un certo momento divenne di capitale importanza stabilire se, ai fini del pagamento delle imposte, il comune rurale di una parrocchia appartenesse a questa o a quella pieve, se un ‘fuoco’ o una persona facesse parte di questo o di quel comune. »
Dopo il massacro e la dispersione seguita alle invasioni barbariche, che ricondussero le aree colonizzate alle foreste primordiali, e all’istallazione dei Longobardi «…la conquista fu molto rapida (circa tre mesi), il che lascia supporre che quasi nessuna resistenza venisse opposta. Certo la condizione delle popolazioni vinte fu molto misera, ma i Longobardi erano venuti con l’intenzione di insediarsi nelle nuove terre e, pertanto, dovettero esercitare la loro violenza soprattutto contro i proprietari. Nelle città gravemente danneggiate i Romani poterono continuare, almeno in parte, il loro lavoro, mentre nelle campagne prevaleva sempre più il regime dei campi aperti, che consentiva forse più di ogni altro ai vincitori e ai vinti di convivere sullo stesso terreno, per l’uguale possibilità che veniva offerta agli uni e agli altri di sfruttare lo stesso suolo […] la conversione al cattolicesimo e l’abbandono dell’arianesimo facilitarono molto una parificazione politica fra le due popolazioni […] Intanto nelle campagne, favorito appunto dalla religione, si stava verificando un processo di ascesa dei servi, che in sempre maggior numero riuscivano a rivendicare la loro libertà. Inoltre aumentavano di continuo i proprietari che avevano ricevuto la terra dal sovrano, il quale cercava di crearsi una schiera di fedeli al posto dei ribelli conti o duchi, trincerati in torri o castelli e forti del possesso di intere pievi…».
l’arrivo dei Franchi e la sconfitta di Desiderio introdussero alcune novità «…le vecchie popolazioni non scomparvero e, così, si poté vedere tre nazioni distinte naturalizzate nella Lombardia, viventi in pace tra loro, ma professando ciascheduna di vivere colle leggi della propria origine…». I Signori longobardi, sia pur ridimensionati, conservarono i loro possedimenti ma Carlo Magno diffuse nella regione il sistema del vecchio diritto germanico, cioè il sistema beneficiario, per cui distribuiva beni e immunità a uomini di sua fiducia, i vassalli, che rimanevano legati a lui con il giuramento di fedeltà. In tal modo riconosceva a questi il diritto di essere esentati da certe imposte e il diritto di riscuotere dagli abitanti della terra che era stata loro assegnata quanto invece sarebbe spettato a lui. Erano queste le basi del regime feudale.
«…In questi secoli al di fuori e al di sopra dell’autorità centrale, sempre molto debole, si vennero formando e rafforzando due altre autorità, l’una dei vescovi e del clero (ai quali i sovrani affidarono spesso il compito di difendere la città dai pericoli di altre invasioni barbariche e che, a poco a poco, finirono per diventare i più ricchi possessori di feudi) e l’altra dei cives, dei cittadini. A proposito di questi ultimi, infatti, bisogna osservare come le città si andassero riprendendo dalla lunga depressione e si andassero anche ripopolando, sia perché diventavano centri di traffici sempre più intensi, sia perché rappresentavano un rifugio sicuro, con le loro solide mura, contro le scorrerie (ad esempio degli Ungheri), sia infine perché raccoglievano i servi, o, piuttosto, quei contadini agiati che volevano sottrarsi ai rigori fiscali sempre più pesanti dei feudatari…».
L’osmosi generata dagli scambi continui tra città e campagna di nobili e ricchi possessori trae vantaggio dall’appoggio dell’intero organismo ecclesiastico cittadino, a cominciare dal clero della cattedrale, che era legato da molteplici rapporti di parentela e interessi con la città e la campagna nel suo complesso:
«…Anche promuovendone gli interessi economici: gli interessi degli ecclesiastici, cioè, quelli delle famiglie da cui provenivano, in genere famiglie legate all’episcopio, di vassalli della Chiesa, non di rado provenienti da località del contado, e ad esso legati, anche se da tempo trasferiti in città e attivi nella vita politica cittadina, per patrimoni familiari e legami con enti ecclesiastici rurali. I principali fra questi, i milites maiores, detti anche capitanei, della seconda metà dell’XI secolo, erano beneficiari di vaste estensioni di terre e di rendite ecclesiastiche, e anche di chiese plebane (le famose infeudazioni delle pievi ad opera dell’arcivescovo Landolfo da Carcano). Accanto ad essi, beneficiari di più limitate e precarie concessioni, erano i milites minores, o valvassori, un ceto sovente inquieto che tuttavia avrebbe ottenuto la conferma del suo status e delle sue prerogative con la Constitutio de Feudis del 1037. Quelle concessioni costituivano, le une e le altre, pesanti ipoteche sui beni della Chiesa, e ne preparavano sovente la perdita definitiva: tuttavia in quella prima fase, ebbero l’effetto di stringere intorno all’arcivescovo una solida coalizione di personaggi eminenti e di interessi familiari, di rinsaldare l’autorità del presule, di dare un carattere più organico alla società milanese…»
Accanto al ceto eminente costituito dalle famiglie dell’alto clero, dei vassalli e dei valvassori dell’arcivescovo erano presenti altri gruppi sociali che si erano venuti affermando con notevole rilievo già fra il X e l’XI secolo: ceti di semplici cittadini, cives (non milites), possessori di terre, di beni immobili nella città e nel contado, attivi in transazioni di affari, commerci di grano, prestiti alle chiese, titolari anche di benefici ecclesiastici e decime; negotiatores, monetieri, uomini di legge, giudici, esperti di diritto…non pochi erano coloro che in città si trasferivano dalle campagne, impegnandosi in nuove attività, ma mantenendo vive relazioni di parentela e rapporti economici con i luoghi di origine. Questo populus (populus minor) si affermò prepotentemente, trovandosi talora in conflitto con i maggiorenti della città, come accadde al tempo di Ariberto, nel famoso episodio che vide i cives in violento contrasto con i capitanei, i valvassori e lo stesso arcivescovo.
«…L’affermazione nelle campagne dell’autorità comunale – grazie anche al forte radicamento del sistema pievano – si attuò gradualmente con quel ceto di domini e di signori (vassalli vescovili, titolari di diritti nelle campagne) […] Nel corso del XII secolo si erano estesi progressivamente gli interventi comunali nella vita delle signorie e delle comunità rurali in materia di imposizioni fiscali, amministrazione della giustizia, leve militari al servizio della città […] Se non mancò da parte dei dòmini un’azione volta a difendere le loro prerogative – nelle campagne cominciavano anche a diffondersi i comuni rurali che riflettevano su scala assai ridotta il modello cittadino, con funzioni organizzative e di controllo delle comunità del contado, sotto la tutela dei dòmini medesimi -…»
Il crearsi di fortune economiche e la ricerca di nuovi investimenti da parte dei cives generò un riflusso dalla città al contado con acquisto di vasti fondi e il formarsi di una nobiltà del denaro a scapito dei possessi di vassalli e valvassori che liquidavano parte dei loro benefici per trasferirsi a loro volta in città.