I BASCAPE’ DI USMATE E LA POSSESSIONE DELLA BARAGGIA

I BASCAPE’ DI USMATE E LA POSSESSIONE DELLA BARAGGIA

di
Paolo Cazzaniga

Qualche mese fa, nell’accettare la proposta della redazione dell’Informatore Comunale di Usmate-Velate, per produrre una serie di note che avessero per tema le corti e le cascine presenti sul territorio comunale, decisi di rifarmi a quanto in altre occasioni avevo pubblicato su questo sito. Dopo aver introdotto l’argomento, nella prima puntata nel mese di Settembre, avevo proposto nel numero successivo la ricerca incentrata sulla cascina “Tamburina” di Velate e della sua origine legata alla “Madonna del Passin”. Nel nuovo articolo previsto nell’uscita di Aprile, ho pensato di rivolgere l’attenzione “all’altra metà del cielo”, raccontando una pagina della passata storia di Usmate. La ricerca svolta ha fornito molti spunti e materiale, che non poteva essere tutto contenuto nello spazio messo a disposizione sulla pubblicazione cartacea del comune. Ho quindi ritenuto di fare cosa gradita, esaurire l’argomento, integrandolo con ulteriori note e curiosità e pubblicare il lavoro in una versione più estesa su questo spazio.
INTRODUZIONE

Vogliamo dirigere l’attenzione su una delle vie del centro di Usmate, Via Vittorio Emanuele, già “via Regia”, passaggio obbligato per chi transitava per il paese, al tempo dei fatti narrati.

Il numero 10 di Via Vittorio Emanuele dove sorgevano le abitazioni dei Bascapè

Lasciata Piazza Casati imbocchiamo la via, ponendo attenzione al lato sinistro, procediamo sino a superare il passaggio pedonale che dirige verso Villa Borgia e la biblioteca, per infilarci al civico 10 e superato il portone d’ingresso sbuchiamo in una corte a ringhiera priva di qualsivoglia elemento architettonico di pregio, se non fosse per due pilastri quasi totalmente inglobati nella struttura muraria che si presenta di fronte e messi in evidenza dai capitelli che ancora impreziosiscono le colonne. Poste a delimitare un ulteriore passaggio interno, che dirige verso un secondo cortile, che si conclude verso la parte posteriore della biblioteca, sistemata nell’ala occidentale di Villa Borgia.
Le due colonne, con buona probabilità segnavano il portico di quella “casa da nobile” che il 5 Settembre 1780 Don Daverio, prete Gio: Batta, aliena attraverso un atto notarile, unitamente ai beni ricevuti in eredità dalla madre Antonia Bascapè, a favore del Conte Angelo Serponti, determinando con questo gesto, l’uscita di scena dei Bascapè, quali proprietari di terreni ed immobili in Usmate. La vicenda usmatese della famiglia, meno nota delle altre aristocrazie storiche del territorio, merita tuttavia una pagina di queste cronache, non fosse altro per la veste inedita di queste note e per quanto in grado di aggiungere alle conoscenze relative all’evoluzione insediativa del centro di Usmate, nella zona prossima a villa Borgia.

LA DINASTIA DEI BASCAPE’ DI USMATE

Tutto aveva avuto inizio quando Manfredo Gattico di Bogogno nel novarese, il 12 Settembre 1607, nel nominare suo erede universale Giacomo Antonio Gattico, lascia alla figlia Daria l’intera possessione della “Baraggia”, nel territorio di Usmate. Non ci è noto quale fosse il rapporto esistente tra il Gattico e l’Usmate del ‘600. Lanciamo una possibile ipotesi, è solo un flebile filo che ci dirige. La caduta del castello di Gattico nelle mani di Galeazzo Visconti, grazie al tradimento di Antonio da Gattico, parliamo degli anni prossimi al trecento, unita alle proprietà di Bernabò Visconti, note per le sue battute di caccia in quel di Usmate, danno spazio all’eventualità che la possessione della Baraggia, fosse il prezzo pagato dal Visconti per la complicità del Gattico. Solo leggenda? Forse….
Certa invece, la bontà dei terreni della Baraggia, ancora in tempi recenti indicati come “ricchi di terriccio e con un profondo strato di coltura”. La proprietà, posta nella immediata vicinanza del centro del paese, si completava di spazi abitativi e da lavoro, tra cui un torchio che serviva per trasformare le uve che crescevano in abbondanza nella possessione. Misurata anni dopo, al tempo della divisione tra i fratelli Bascapè nel 1679, risulterà estesa per 172 pertiche di vigna, 77 pertiche tra ronchi in piano e in costa a cui si aggiungerà il bosco in località Lomagna per 47 pertiche.

L’androne con il portale in cui si evidenziano ai lati due pilastri, inglobati nella struttura muraria. Nel riquadro quanto ancora si coglie del capitello di uno dei due pilastri

Daria Gattico, erede dei beni di Usmate, sposa Antonio Bascapè e raggiunge la Brianza. I Bascapè, “a Basilica Petri”, il cognome nella sua declinazione latina, come riportano i documenti ufficiali dell’epoca, trovano origine nel paese omonimo, anch’esso prossimo a Novara. Già vedova di Antonio Bascapè, Daria Gattico, muore nel 1624, lasciando suoi eredi, con i beni equamente divisi, il figlio Cesare di primo letto, e la figlia Margherita avuta in seconde nozze da Gio: Batta Calco. Nel 1636, Margherita ed il padre escono di scena, lasciando, non sappiamo a quale titolo, l’intera proprietà di Usmate nelle mani di Cesare Bascapè. Alcuni documenti testimoniano di controversie giudiziarie che vedono protagonisti la discendenza dei Gattico, che solleva pretese sui beni di Usmate. Con decreto del magistrato straordinario dello stato di Milano nel 1664, la possessione della Baraggia resta nelle disponibilità dei Bascapè. Dalla documentazione consultata, non compare il nome della moglie di Cesare, alla cui morte succede nel 1669, il figlio Ascanio, che con il padre ancora in vita, aveva sposato nel 1655 Lodovica Olivera, un personaggio non completamente svelato nelle sue origini, nella ricerca d’archivio compiuta, comunque di vero spessore sul piano umano e dal consistente patrimonio. La dote portata da Lodovica ammontava in totale, a 18000 lire imperiali che viene erogata in tre rate negli anni 1655, 1656 e 1658. La stessa, quando le finanze dei Bascapè, cominceranno a vacillare, si priverà via via di altri beni immobili, case e terreni, di cui era proprietaria.

Dal matrimonio tra Ascanio Bascapè e Lodovica Olivera, nascono quattro figli maschi. Nel 1679, alcuni anni prima della morte del padre, i quattro Bascapè: Carlo Giuseppe, Gio: Cesare, Lorenzo Alessandro e Cesare Francesco, erano stati designati eredi della proprietà la cui divisione si compirà nel 1687, quando i fratelli si vedranno assegnare, attestate da un preciso documento redatto dall’ingegnere collegiato Bartolomeo Malatesta di Milano, le rispettive parti della possessione della “Baraggia”. Nessuna delle persone da noi interpellate ad Usmate, ha saputo dirci dove poteva collocarsi la “Baraggia”, in effetti oggi ben poco rimane della campagna coltivata a viti e dei ronchi descritti nella divisone tra i fratelli. Il termine “baraggia” indica la qualità di un terreno di origini alluvionali, tipico dell’alta pianura lombarda, notoriamente indicato come arido e argilloso, caratteristiche che al vero paiono in contrasto con quanto indicato in precedenza sulla bontà accertata del terreno in questione. Riandando all’ipotesi formulata, circa l’approdo dei Gattico ad Usmate, il nome “Baraggia” si potrebbe spiegare, con l’omonima località nelle vicinanze di Gattico da cui i primi proprietari discendevano. Semplice pensare, che giunti in quel di Usmate, abbiano voluto ripetere il toponimo, per confermare e mantenere un legame almeno formale con le loro origini.

L’ultima pagina della divisione dei beni Bascapè avvenuta nel 1687

E’ verso gli anni ’80 del seicento che la situazione finanziaria dei Bascapè inizia a vacillare. Si profila all’orizzonte la figura di Antonio Serponti, personaggio unitamente alla famiglia, controverso e che merita più di un’attenzione.

La famiglia Serponti, le cui origini si collocano sul lago di Como con probabilità a Varenna,  nella tipica evoluzione del patriziato dell’epoca, cercò fortuna nella capitale del Ducato di Milano, ricoprendo via via sotto le varie dominazioni, dagli Spagnoli agli Austiaci, cariche di rango. Verso la fine del ‘700 le sostanze lasciate in eredità da Giovanni Giorgio Serponti, comprendono un patrimonio che tocca le località di Magenta, Velate, con le aggiunte di Gerno e Pegorino, verso Lesmo; Usmate, Lomaniga, Vedano, Spiazzo e Bagaggera, nella zona del Parco della Valle del Curone; ed ancora verso il lecchese le località di Germanedo, Acquate, San Giovanni alla Castagna, Rancio Lecco, Bellano, Varenna, Lierna, Dervio.

I Serponti, con ingenti somme di denaro liquido a disposizione, alimentano prestiti ad una classe nobiliare ancora ricca di beni immobili, ma dalle finanze dissestate, anche a seguito di mutate condizioni sociali che andavano consolidandosi. Nella necessità di fare fronte alle spese correnti, questi personaggi ipotecavano le loro proprietà ed una volta insolventi, le stesse venivano fagocitate dai Serponti.  Esempi consolidati nella vicina Velate, dove emblematica è una vicenda simile che coinvolge la famiglia Albrizzi. Non dobbiamo poi dimenticare l’appartenenza del Segretario Canonico Serponti, al capitolo di Santa Maria alla Scala di Milano. Istituzione religiosa di fondazione regale, voluta dai Visconti, che accumulerà ricchezze e privilegi in quantità. Il titolo di “Segretario”, attribuito al Serponti, si riferisce alla funzione svolta nell’ambito del capitolo, dove emblematico un esempio in quel di Arcore, vede il Serponti  in aperto conflitto d’interessi. Forte della carica di cui è investito, dirotterà beni acquisiti in località “Ca Bianca”, dalla collegiata alle disponibilità della sua famiglia, attraverso capitali messi a disposizione dal fratello Paolo Serponti.  Poco alla volta, sino alla fatidica data del 1780 citata, tutti i beni di Usmate dei Bascapè e di Lodovica Olivera finiranno nelle mani dei Serponti, che in seguito cederanno l’intera “partita”, ad inizio ‘800, a Rinaldo Balbiano di Belgiojoso.

Il volume conservato presso l’Archivio di Stato di Milano. Un regesto dei documenti che componevano l’archivio della famiglia Serponti

Prima ancora di entrare nel possesso formale dei beni, che poi avranno in successione, precisamente nel 1682 due dei fratelli Bascapè, Giuseppe e Gio: Cesare, impegneranno parte della futura eredità, a fronte di crediti elargiti in via diretta ed indiretta dal Serponti. Risulta, che i beni oggetto della  cessione a venire, saranno scelti dallo stesso creditore, tra quelli che entreranno nella disponibilità dei due. Un anno prima nel 1681 Carlo Giuseppe Bascapè si era sposato con Caterina Mangiagalli, ricevendo in dote la cifra di 4000 lire imperiali.

Giungiamo al fatidico 1687, quando si procede alla divisione della proprietà e l’assegnazione ai quattro eredi. La proprietà si componeva di differenti corpi. La pregiata vigna della “Baraggia”, i ronchi in costa e in piano, prossimi alla stessa vigna, il bosco posto in località Lomagna, ed il sito di casa, composto di abitazioni e luoghi di lavoro.

A fare data dal 1687, tutti i fratelli per importi più o meno sostanziosi, fanno ricorso al Serponti, impegnando pezzi di terreni avuti in eredità. E’ comunque nel 1690 che a seguito dei mancati adempimenti nei confronti del creditore, i Bascapè iniziano a privarsi delle loro proprietà. Questa la sequenza: il 4 Febbraio Lorenzo Alessandro cede al Serponti 34 pertiche della vigna ed un altro appezzamento di “ronco in Costa”. Il 30 Maggio è Cesare Francesco a privarsi di 31 pertiche della sua parte di vigna della “Baraggia” e di 4 pertiche del ronco in Costa. Novembre, anche Carlo Giuseppe lascia al Serponti 37 pertiche della vigna. Il prezzo pagato è di 87 lire imperiali alla pertica.

Le proprietà dei Bascapè al tempo della divisione del 1687. Evidenziata la zona su cui si estendeva la vigna della “Baraggia”

Nel 1691 uno dei fratelli Lorenzo Alessandro, risulta deceduto, ed ecco che Carlo Giuseppe, il 5 Aprile, si priva di poco più di 7 pertiche dell’eredità, il prezzo alla pertica risulta essere di 95 lire. In questa circostanza i due fratelli Cesare Francesco e Carlo Giuseppe, tirano le somme e si trovano con debiti da pianificare verso diversi creditori, risalenti a prestiti fatti al loro padre Ascanio ed altri a carico del fratello defunto. Sempre lo stesso 5 Aprile il notaio Marc’Antonio de Regibus de Ello (Redaelli nella più moderna forma) attesta l’elargizione di nuove somme di denaro da parte del Serponti, tale somme dovranno essere restituite per il prossimo San Martino, aggravate di un interesse del 5%. Prevedendo comunque l’impossibilità di onorare i debiti, si identificano quali beni passeranno di mano, tra questi 11 pertiche di vigna ed altre 12 pertiche su due distinti appezzamenti. Assistiamo verso la fine di quel 1691 al tentativo da parte di Gio: Cesare Bascapè di rientrare in possesso di parte dei beni ceduti dalla sua famiglia, ed il 23 Novembre, acquista dal Serponti circa 13 pertiche delle loro vecchie proprietà. Sempre nello stesso anno lo stesso Gio: Cesare si appella al Capitano di Giustizia di Milano, per redimere alcune controversie in corso con il Serponti, che probabilmente non aveva intenzione di restituire i beni avuti in pegno, nonostante il Bascapè, fosse pronto a rendere i denari avuti in prestito. Gli altri fratelli, non sono in grado di seguire l’esempio di Gio: Cesare, tanto che negli anni successivi, Cesare Francesco vende al solito Serponti, prima nel 1692 poco più di una pertica della “Baraggia”, ancora l’anno dopo 12 pertiche della stessa vigna e nel 1693 altre quattro pertiche, impegnandone ulteriori 12, con “patto di grazia” vale a dire riscattabili sino al mese di Novembre, con poche possibilità di restituzione, visto poi l’atto di vendita, risalire al Settembre dello stesso anno. Carlo Antonio fa ricorso al Serponti ancora nel 1694 cedendo 1 pertica di bosco detto “la valetta della Baraggia”, quanto rimasto della divisione dell’eredità del fratello morto.  La situazione economica di Gio: Cesare si fa pesante, se nel 1695 vende di seguito 34 pertiche dei ronchi e 10 pertiche della piana della “Baraggia”. Passa solo un anno e nell’Agosto del 1696 lo stesso, che compare nell’istrumento unitamente alla moglie Maria Verga, si privano di quanto ancora loro resta. Sono poco più di 15 pertiche della vigna e di 30 del “Ronco in piano”, oltre a 4 del bosco prossimo al ronco. Vanno a loro 5735 lire imperiali. Nello stesso documento si registra l’investitura dei due, per 12 anni, della gestione dei beni ora elencati, in cambio pagheranno un affitto annuo,  in natura di poco meno di 6 stai di frumento. Siamo ancora nella condizione di segnalare l’intervento del Senato milanese, che autorizza Carlo Giuseppe e Cesare Francesco, alla vendita di loro beni che erano sottoposti a vincolo di “fidecomisso”, istituto giuridico che impediva la vendita di quei beni destinati in eredità ai primogeniti. Tali beni in effetti erano già stati ceduti al solito Serponti, che ora si trovava nell’impossibilità di usufruire di tali proprietà.

Giungiamo al 1702, quando  Carlo Giuseppe muore. La disastrata situazione finanziaria ha coinvolto anche i beni della moglie, Caterina Mangiagalli, che ora alla morte del marito, si vede pressata dal Serponti, deciso a chiudere le pendenze. La contesa si protrarrà sino al 1706, con interventi del Capitano di Giustizia e del Senato di Milano. Nell’Agosto di quell’anno, attraverso un accordo, Caterina Mangiagalli e i quattro figli, si determinano a pagare al Marchese Don Antonio Serponti quanto dovuto, dei beni provenienti dall’eredità di Carlo Giuseppe Bascapé. Unica eccezioni l’esclusione dei beni dotali della madre. In effetti nel 1703, la stessa Caterina Mangiagalli, aveva ottenuto attraverso “apprensione giudiziale” un pezzo di terra detta “l’u(v?)siolo” e una casa da nobile. Due parole di spiegazione, “l’apprensione giudiziale” risulta essere un sequestro di beni  quale garanzia, che potrà al termine di una lite giudiziaria in corso, soddisfare una delle parti in causa. La curiosità di conoscere quali, o meglio ove fossero dislocati il terreno e la casa, risulta di non definitiva soluzione. L’abitazione da nobile potrebbe essere la conosciuta residenza storica dei Bascapé di cui abbiamo detto, in parte ancora in possesso di Francesco Bascapè, figlio di Carlo Giuseppe nel 1774, quando anche quest’ultima  viene acquisita da Gio: Giorgio Serponti. Per quanto riguarda il pezzo di terra, la non semplice interpretazione del tratto di scrittura, una “v” iniziale nel regesto Serponti, oppure una “u” nel difficile documento del notaio Antonio Bernareggi, non ci aiuta nell’identificazione.

In questa cronologia, segnata da date legate a passaggi di proprietà, oppure da atti strettamente legati a questioni di possesso, una altrettanto sicura cadenza degli eventi è determinata dai testamenti, che di fatto segnano la dipartita di questo o quel personaggio legato alle vicende famigliari dei Bascapè. Nel 1711 registriamo dunque la morte di Lodovica Olivera Bescapè, avvenuto senz’altro in veneranda età, moglie di quell’Ascanio morto alla fine degli anni ottanta del Seicento. In questa occasione si procede alla divisione dell’eredità della donna. I beneficiari sono i figli Gio: Cesare e Francesco, oltre alla casata del defunto Carlo Giuseppe, che annovera la moglie Caterina Mangiagalli e i figli Geruntio, Francesco Giulio, Giuseppe e Carlo.

I BENI DI LODOVICA OLIVERA ED IL SUO TESTAMENTO

Prima di continuare con l’elenco degli eventi che estrometteranno completamente i Bascapè dalle loro proprietà usmatesi, ci soffermiamo sulla figura di Lodovica Olivera. Avevamo parlato dell’ingente somma portata in dote dalla stessa, a cui si aggiungono alcune importanti proprietà che nel corso degli anni furono cedute per ripianare la sempre difficile posizione dei Bascapé.  Il 4 gennaio del 1684, attraverso l’atto del notaio Andrea Cima di Milano, Lodovica Olivera cede “quella possessione con Beni ed edifizy da massaro di pertiche 320 siti nel Luogo e territorio di Usmate pieve di Vimercate… con tutte le scorte per il prezzo di 29246 lire imperiali”, acquirente la Signora Marchesa Margarita Pirovano Busca. Passano alcuni anni e nel 1692 cede all’Illustrissimo e Reverendissimo Abbate Erasmo Busca, che acquista a nome dei suoi nipoti ancora minori, “un Torchio cinto de muri con tutti li suoi utensily, siti nel Luogo d’Usmate…. per il prezzo di 2800 lire imperiali”. Le vendite proseguono ancora l’anno successivo nel 1693, quando Lodovica si disfa anche della casa da pigionante per altre 875 lire imperiali. Nel 1716, abbiamo informazione di una proroga concessa a Gio: Cesare Bascapè dal Busca, di un “patto di retro vendita”  (tale accordo prevedeva la possibilità, entro il tempo stabilito, di ricomprare quanto si era venduto), per altri tre anni a fronte di un impegno, che dai poco meno di 7 stai di frumento l’anno, veniva tramutato in un affitto di 150 lire imperiali che il Bascapè, pagava al Busca. Pensiamo comunque che tale patto, non riguardasse i beni che provenivano dalle disponibilità della Olivera, ma potrebbero essere quelle 15 pertiche di vigna detta “Baraggia” che nel 1733 il Marchese Don Lodovico Busca, vende a Don Paolo Antonio Serponti. Per quanto riguarda invece la proprietà di 320 pertiche con gli edifici, gli stessi saranno venduti nel 1718 dal Marchese Don Lodovico Brusca, all’Abbate Don Giorgio Serponti. La cifra pagata per questa transazione sarà di 34264 lire imperiali. Dove era collocata la possessione ora descritta?  Dall’atto notarile, redatto da Gio: Andrea Mazzuccone, il 22 Febbraio del 1718, si  conoscono le tre unità di terreno che assommano alle 219 pertiche. Si tratta di un terreno coltivato a vigna detto “Pizzalonga” di 20 pertiche, una seconda estensione di terreno arativo conosciuto come la “Campagna” che tra l’altro ha come confinanti i Padri del Carmine di Carnate oltre che il torrente Molgora. Si finisce con un pezzo di terra detto la “Valle” di poco meno di 150 pertiche, posto a ridosso della Molgora e tra gli altri confinanti Gio: Batta Caimo. Passando al capitolo edifici, si elenca una casa da massaro con 4 locali inferiori e i suoi relativi superiori, l’edificio si completa di stalla con cascina, mentre sono elencati di seguito il portico, il pollaio ed un pozzo comune ad altri proprietari tra cui troviamo il solito Caimo. Passiamo alla costruzione dotata di torchio che si trova addossata ad una casa di pigionanti che viene anch’essa ceduta. Tali edifici confinano con la via pubblica ed una casa sempre descritta da “pigionanti” di proprietà di Gio: Batta Caimo. Attraverso un interessante documento, relativo agli atti preparatori al censimento noto come “Catasto Lombardo Veneto” risalente al 1857, identificato come “Tavola di classamento”, siamo in grado di abbinare tutti gli appezzamenti di terreno di Usmate con un preciso numero di mappale, a cui viene associato il nome con cui comunemente si identificava quel terreno, ecco dunque che “Pizzalonga”, “Campagna” e “Valle”, escono da quella “sfera pittoresca” per rendere una precisa informazione circa la collocazione del pezzo di terra. Risulta semplice, ricorrendo all’ausilio di una mappa odierna, identificare e illustrare i luoghi citati negli atti notabili del ‘700, quando erano ancora lontane l’idea di catasto moderno, legato a numeri di mappale, che poi hanno preso il posto di quei “Pizzalonga”, che identificavano una caratteristica del terreno, un proprietario od altro ancora, che segnava in modo univoco, anche se limitato al solo ambito locale, un pezzo di terreno. Una pratica che determinava un rapporto d’intimità tra la terra e l’uomo, oggi completamente immolato sull’altare della globalizzazione, che ha voluto deliberatamente spersonalizzare  ogni cosa.

L’indicazioni delle proprietà di Lodovica Olivera, nella mappa odierna.

Abbiamo ancora l’opportunità per indagare la collocazione degli edifici oggetto della vendita. Possiamo ipotizzare che fossero collocati tutti nello stesso ambito. Con probabilità erano sistemati nella zona centrale di Usmate. In effetti la posizione delle tre località, citate in precedenza, lascia aperta l’ipotesi che le costruzioni fossero più decentrate, anche se al tempo dei fatti citati, due località, “Pizzalonga” e “Valle”, risultano isolate e senza edifici prossimi. Indirizzando la nostra ricerca sui passaggi di proprietà, ed riferendoci ai documentati edifici entrati nella disponibilità dei Giulini, di provenienza Serponti, possiamo concentrare la nostra attenzione sui fabbricati indicati nel catasto teresiano coi mappali 308 e 309, che modificati compongono il nucleo di abitazioni che comprendono il fronte di via Vittorio Emanuele sul lato dispari, grosso modo dal numero 19 sino all’angolo con via Roma nel tratto che dirige verso Arcore, tratto di via, che dobbiamo ricordare non esisteva al tempo dei Bascapè, ma fu aperta solo negli anni ’30 del novecento. Risultano di proprietà Giulini, sempre riferendoci a quanto riportato nel teresiano, la costruzione al numero 316, in quel complesso di edifici, posti appena superata la “chiesa vecchia”. Possiamo concludere ipotizzando più probabile la prima ipotesi, riscontrando come confinanti della proprietà di Lodovica Olivera, i Conti Caimo, che possedevano ancora a fine settecento, abitazioni prossime ai mappali 308 e 309.

Ipotesi del luogo ove potevano trovarsi gli immobili ceduti da Lodovica Olivera

Quando Lodovica Olivera muore nel 1710, nell’articolato testamento lascia alle nipoti, redditi derivati da un legato da lei istituito. Tra le condizioni di elargizione, le differenti cifre spettanti, in relazione alla scelta monastica o matrimoniale, cui si sarebbero dirette le nipoti. Nel documento che riporta le volontà di Lodovica Bescapé compaiono le figlie di Gio Carlo già defunto, Marianna e Lodovica e la nipote Antonia figlia di Gio Cesare. Nel 1710 dopo la morte di Lodovica e l’esecuzione testamentaria delle volontà, troviamo due documenti che attestano la ricevuta di somme ben più esigue di quelle indicate nel testamento che risultano attribuite a quattro monache. Una prima ricevuta elenca le sorelle Bescapé che sono appunto Lodovica e Marianna, a cui si aggiunge Teresa Fortunata. Il secondo documento per ricevuta di 100 lire, stessa cifra andata ad ognuna delle tre sorelle appena citate, è firmato da Lodovica Flaminia Bascapé.  Attraverso uno sterminato inventario, ancora Lodovica Olivera, dispone poi l’assegnazione ai figli di oggetti di uso comune ed altri più preziosi, che testimoniano uno status da cui la donna, non aveva mai abdicato. Con caparbietà aveva anzi conservato un patrimonio, a dispetto degli eventi che inesorabili avevano impoverito la sua famiglia. Ecco dunque tra gli abiti lasciati in eredità spuntare “Un mantò di turchino cangiante, et un sotanino di vaio a fiori, et un busto coperto di vaio celeste ornato d’argento et un corselino cangiante” ed ancora gli eredi non mancheranno di dividersi i proventi derivati dalla vendita di “Argenti per 66 libbre, 8 colli di perle, un anello di un diamante e un gioiello con quattro diamanti”.

Una delle pagine in cui si elencano i beni lasciati in eredità da Lodovica Olivera al figlio Gio. Cesare Bascapé

Le sorprese non finiscono, ai figli giungono inoltre crediti che la madre vantava verso persone a cui aveva prestato denari, in quel gioco delle parti che ribaltato, stava conducendo sul lastrico i Bascapè. In una pagina del documento appena riprodotto, si descrivono gli oggetti lasciati ad uno dei figli. Un inventario che incuriosisce ed al contempo ci fa conoscere quegli oggetti di uso comune nelle abitazioni della Brianza tra il ‘600 e il ‘700, anche se molti di questi, erano probabilmente nella disponibilità dei soli ceti abbienti.

LA PARABOLA DEI BASCAPE’ VOLGE AL TERMINE

Quanto lasciato da Lodovica Olivera, solleva solo per poco le finanze della progenie dei Bascapè.  Nel 1712 assistiamo alla registrazione di un ennesimo prestito dell’Abate Giorgio Serponti, a Gio Cesare. La cifra di 2400 lire imperiali dovrà essere restituita in cinque anni con l’interesse annuo del 3,15%. A garanzia 27 pertiche di “terra ronco”. La cifra è probabilmente servita per le nozze della figlia di Gio Cesare, Antonia, che non sembra ricevere quanto indicato dalla nonna sul legato a lei attribuito. Abbiamo in compenso la notizia della dote che il marito di Antonia, Gio Francesco Daverio pattuisce di elargire al suocero, sono 4000 lire, due mila sono pagate immediatamente le rimanenti per un tempo a discrezione del Daverio. E’ nel 1716 che Gio Cesare riceve un nuovo prestito dall’Abate Serponti di 1000 lire , da restituire nel giro di tre mesi, l’interesse è del 3,1%. Un poco più alto 4%, è invece l’interesse che lo stesso Serponti chiede a Caterina Mangiagalli moglie del defunto Gio Carlo Bascapè, per il prestito di una cifra prossima alle 1100 lire da rendere entro due anni. Attendiamo il 1719 quando si compie uno degli ultimi atti che sanciscono il nuovo status sociale dei Bascapé.  Nel Dicembre di quell’anno Gio. Cesare e la moglie Maria Verga, vendono le ultime 24 pertiche di loro proprietà relative al “ronco”, la cifra pagata dal Serponti è di 2700 lire. Nel contratto compare la clausola di lasciare i due, “vita natural durante”, affittuari del terreno, a fronte di un esborso, da parte della coppia, di 4 lire per pertica all’anno. Abbiamo ancora schermaglie fino a tutto il 1750 tra i discendenti Bascapè e i Serponti, per arrivare appunto al 3 Marzo quando Carlo Francesco Bascapè, discendente del ramo di Carlo Giuseppe e Catarina Mangiagalla, si accorda con i successori Serponti per ratificare le convenzioni e le vendite fatte dai suoi predecessori.  Francesco Bascapè, resta proprietario dell’abitazione da Nobile e del giardino, di cui abbiamo detto all’inizio, collocati presso l’odierno numero 10 di via Vittorio Emanuele. Nel luglio del 1764, anche quest’ultima proprietà passa ai Serponti, a Francesco Bascapè un vitalizio annuo di 450 lire annue, non sappiamo se lo stesso resta nel possesso della “nuda proprietà” o se lascia la storica dimora della famiglia, sappiamo che ancora nel 1766 il vitalizio scende a 400 lire annue dopo l’ennesimo prestito di 1000 lire concesso dal Serponti.  A questo punto una piccola porzione dell’abitazione è ancora nelle mani dei Bascapè, la detiene Antonia Bascapè. Nel 1774 dai documenti che illustrano i trasporti d’estimo, le registrazioni volute dall’Impero Austro-Ungarico, per tenere nota legale dei passaggi di proprietà, due atti riguardano i beni dei Bascapè. Nel primo risulta il passaggio formale della porzione di casa e del giardino da Francesco Bascapè al Marchese Gio. Giorgio Serponti. Nel secondo abbiamo notizia della morte di Antonia Bascapè, che passa i suoi averi al figlio, sacerdote Gio Batta Daverio. Oltre alla porzione dell’abitazione figurano ancora circa 70 pertiche di terreni dell’antica possessione della Baraggia. Sei anni dopo la morte della madre, il sacerdote, il 5 Settembre 1780, aliena gli ultimi possedimenti dei Bascapè, cedendo gli stessi all’altro fratello Serponti, il conte Angelo, compiendo con questo atto la definitiva uscita di scena dei Bascapè di Usmate.

LA POSSESSIONE DELLA BARAGGIA EDIFICI E TERRENI

Poniamo ora l’attenzione sulla dislocazione della possessione e degli edifici di proprietà dei Bascapè. Cercheremo in tal modo di collocare con una certa approssimazione quanto emerge dalla documentazione a disposizione, cercando quegli agganci che ancora sopravvivono nel tessuto urbano della Usmate di oggi.

Iniziamo con l’esposizione, che si evidenzia nella divisione della proprietà tra i fratelli Bascapè nel 1679. Questa la descrizione del sito di casa Bascapè: “Seguono le case da Massaro dette del Torchio; Prima entrando nella detta Casa per la Porta grande vicino alla Chiesa; qual porta è comune a detti Signori fratelli Bascapè et Signor Conte Prospero Crivelli e Gio. Carlo Caimo e dopo seguono le case di detti Signori fratelli Bascapè nel sito del detto Torchio…” All’altezza del numero 8 di Via Vittorio Emanuele, se guardiamo all’interno del cancello, cogliamo sulla destra il muro di cinta che divide la proprietà limitrofa. Sul percorso della cinta si alza la struttura muraria che conteneva un portone. Il passaggio, che oggi risulta occluso, rimanda con probabilità alla “Porta Grande”. Conosciamo che il complesso dei Bascapè, si strutturava su una prima costruzione a due piani a cui si appoggiava una piccola stalla di proprietà del Caimo, una scala esterna conduceva al piano superiore. Seguiva una stalla posta “di la del Torchio con sopra la cassina”. Verso la proprietà del Conte Crivelli, s’incontrava “l’horto dove vi è il morone grosso”. Erano ancora presenti cinque salici che “restano in dirittura della sbara del Signor Conte Crivelli”. Si giungeva quindi al torchio, a cui si addossava un locale e una ulteriore stalla.  “Un solaro”, raggiungibile attraverso una scala esterna, fungeva da superiore ai due locali menzionati. Dal lato della “Portina” che dava sulla strada (pensiamo l’odierna via Vittorio Emanuele) e prossima al pozzo, si trovava una nuova stalla con la “cassina” ed un pollaio. A questo punto si approdava al “portico con pilastro”, un piano terra ed attraverso una nuova scala interna si accedeva al superiore. E’ questa la descrizione del fabbricato, profondamente mutato, che si presenta una volta entrati nel portone del numero 10 di Via Vittorio Emanuele. Il complesso dei Bascapè si completava con “La Casa della Colombara”, forse quel corpo di fabbrica che ancora appare nella sua forma a torre, leggermente staccato dalla costruzione che si incontra, sulla sinistra, superando il passaggio coperto all’interno dello stesso cortile.

Dietro la parata dei box la struttura che probabilmente conteneva la “Porta grande” citata nella descrizione del 1687 relativa alla proprietà Bascapè

Possiamo aggiornare la consistenza del complesso abitativo dei Bascapè in occasione della morte di Lodovica Olivera, quando nell’assegnazione dei locali che erano stati nella disponibilità della madre, si procede altresì alla formalizzazione dell’attribuzione delle parti della proprietà che erano state di Lorenzo Alessandro, il fratello defunto probabilmente dal 1691. La stima è fatta dall’agrimensore Gerardo Besana, agrimensore pubblico di Milano abitante in “Grate” (Agrate). Siamo prossimi all’epoca del “Catasto Teresiano”, la riproduzione topografica resa nell’occasione, dovrebbe ricalcare lo stato delle cose che Gerardo Besana certifica.  Non c’è più notizia della presenza del torchio, possiamo al riguardo formulare un’ipotesi. Sappiamo, come riporta tra l’altro il volume edito anni fa, dal Comune di Usmate-Velate ”Terre di Brianza”, di un torchio presente nella proprietà condotta da Clementina Tarantola, maritata Borgia. Attraverso i documenti prodotti dal catasto austriaco di metà ottocento, possiamo con certezza collocare il torchio in quella costruzione che oggi si addossa alla Villa Borgia, e accoglie la sede degli “Alpini”. Saremo comunque propensi ad escludere che tale costruzione facesse parte delle disponibilità dei Bascapè. Non escludiamo comunque la possibilità di un passaggio di proprietà del solo torchio. Una volta privati della vigna, i Bascapè, forse si erano disfatti del torchio, acquistato o dal Conte Crivelli, possibile proprietario della costruzione poi divenuta Villa Borgia, o più avanti, da quei Campagnani, con certezza in possesso dei beni poi passati ai Tarantola-Borgia. Una differente ipotesi sul torchio, emerge dalla documentazione, che illustra le osservazioni prodotte alla Delegazione Censuaria, durante la preparazione del Catasto Lombardo-Veneto, metà dell’ottocento, Alessandro Antongini, segnala nella casa rustica adiacente alla sua dimora padronale, la costruzione di un granaio e tre camere, che andavano a collocarsi sopra il torchio già preesistente. Lo stabile era collocato in quello spicchio di terreno posto all’angolo fra le Vie Vittorio Emanuele e Via Roma, molto prossimo al luogo in cui abbiamo ipotizzato fosse collocata la famosa “Porta grande”, citata nella divisone fra i fratelli Bascapè del 1679, uno spazio all’epoca ancora libero da costruzioni e che trovava l’edificio più prossimo, nella vicina chiesa menzionata nella descrizione. Sorge poi qualche dubbio sul nuovo orientamento del complesso abitativo dei Bascapè. L’originale “Porta Grande” indicata verso la Chiesa e di cui abbiamo ipotizzato i resti inglobati in quel muro di divisione all’interno del numero 8 di Via Vittorio Emanuele, sembra nel 1710 dislocarsi, dove oggi sorge l’ingresso del 10 della stessa via, al tempo della divisione del 1679 indicata come “Portina” e quindi in seguito ampliato. La descrizione che segue dirige in questo senso. Comunque prima di proporre l’elenco degli edifici, redatto da Gerardo Besana, diamo ancora indicazione sull’esistenza di “quell’Oratorio dipinto con il suo antiporto di noce e suoi vetri”, pensiamo voluto da Lodovica Olivera, donna dalla consolidata fede religiosa, testimoniata dagli innumerevoli oggetti sacri che lascia in eredità e soprattutto per quel “legato”privilegiato per  le nipoti che si sarebbero monacate.

Il centro di Usmate, nella rappresentazione del catasto teresiano, anni venti del settecento.

Dunque riepilogando,  s’inizia con la stalla con sopra la “cassina”, che si trova nell’angolo della corte a mano sinistra entrando dalla porta grande. La stalla necessita riparazioni al muro verso la corte e cosi il soffitto della stalla, dove devono essere sostituite la metà delle assi. Segue la sala grande che si trova al piano di terra a mano diritta entrando sempre dalla porta grande. Due camere, si trovano sopra la sala appena indicata e sono divise da un tavolato. Si giunge alle due camere attraverso un andito.  E’ ora la volta dell’oratorio dipinto con il suo “antiporto” di noce e i suoi vetri. Si segnala la presenza della cantina sotto terra, in volta, con la scala per discendervi. Alla sinistra della porta grande la cucina e dispensa del signor Gio Cesare Bascapè, allo stesso piano il “Salettino” ed altri luoghi del detto Gio Cesare, la costruzione si completa con una scala di legno per condurre al piano superiore dove sono dislocate quattro camere. Una ennesima sala si colloca sopra il portico, che è di rimpetto alla porta grande. La scala che sale al locale, è realizzata “di vivo” ed il muro della stessa è condiviso con un ambiente usato in comune dalle famiglie dei Bascapè. L’elenco continua con un’altra cantina con suo “solaro” che si trova a mezzo nel giardino dalla parte verso mezzogiorno, qual cantina è in parte sotto terra. La descrizione termina con la cucina della  signora “Catterina”, con “dispensino” a quella annesso, per finire con l’altro giardino detto il “giardinetto”, dalla parte verso mezzogiorno.

Terminata la descrizione degli edifici, passiamo all’identificazione dei terreni che componevano la possessione. Dalla documentazione, relativa alla divisione tra i fratelli Bascapè, si è potuto appurare che l’area della vigna formava un triangolo il cui vertice era collocato nell’odierna centrale Piazza Casati, quindi per i lati, da una parte il tratto a salire di Via Vittorio Emanuele e quindi la via che conduce a Velate, dall’altra Via Milano, sino a chiudere il triangolo dove termina l’insediamento industriale della IPA. Il resto della possessione, ronchi in piano ed in costa, si estendeva a nord della strada per Velate.

Resti, all’interno del parco di Villa Borgia, di quello che poteva essere il ponte eretto sul cavo Scotti, per consentire il passaggio dei Bascapè, verso i loro terreni

Nella divisione della vigna, si legge che a Carlo Giuseppe, viene destinata la parte “A”, di cui fa parte il “Brolo di Casa”, tale porzione di terreno, ritorna alle cronache qualche anno dopo, aiutandoci in tal modo ad identificare con precisione il luogo. Nel 1693, in occasione della realizzazione della “Roggia Scotti”, il corso d’acqua, derivato dalla Molgora in prossimità di Impari, che dirigeva, attraversando il territorio di Usmate, Velate e Velasca, verso Oreno, dove alimentava i giochi d’acqua e le fontane, nel parco del Conte Scotti, il nobile acquista una striscia di terreno, all’interno della proprietà di Carlo Giuseppe Bascapè, per far passare il corso d’acqua. Un passaggio dell’atto d’acquisto, indica che lo Scotti si farà carico della costruzione di un ponte in cotto per consentire al Bascapè, provenendo dall’abitazione, di scavalcare la roggia e dirigersi verso la vigna, (“di larghezza detto ponte sufficiente per passare con carri”). Possiamo ipotizzare che il manufatto che si presenta, a destra, superata l’entrata al Parco di Villa Borgia da Piazza Casati, possa essere per la sua forma, residuo di quel ponte appena descritto.