QUO VADIS? DALLE CATACOMBE SULL’APPIA, AD ARCORE: 12 GIUGNO 1612
È curioso come fatti e oggetti, quasi del tutto dimenticati, emergano dal calderone delle vecchie memorie, legati gli uni agli altri a ricostruire antiche cronache di avvenimenti, così che da semplici note sbiaditamente leggibili su vecchi fogli si trovano gli agganci a oggetti anonimi fino al momento di corrette interpretazioni delle notizie, che li legano ai fatti riportati…
Tonino Sala
UN VIAGGIO TRA “TOMBAROLI”, RELIQUIE, VESCOVI, NOBILI E PROCESSIONI
Don Gioseffo Berta, voleva dirigersi verso il corso d’acqua, attratto dal gorgoglio prodotto dal torrente, nel leggero salto che compiva prima di dirigere oltre la chiesa. Pensava di trovarvi un po’ di ristoro, alla calura che aveva impregnato l’intera giornata, ormai al termine. Fino a poche ore prima era stato un accalcarsi di gente ed un brusio incessante, come poche volte aveva avuto modo di assistere. Attraversava ora le scomposte file di croci, che segnavano il piccolo cimitero posto davanti la chiesa. Aveva sempre un pensiero per chi giaceva sotto questa o quella croce, tanto che metodicamente si riprometteva di disegnare un diverso percorso ogni volta che transitava per il cimitero, per non far mancare a nessuno una preghiera. Le fatiche della giornata si facevano sentire, era suo desiderio coricarsi al più presto, una volta raccolto quel poco sollievo sul bordo della Molgorana, spinto nel gesto, più dalla consuetudine, che dall’aria non ancora rinfrescata. Non raggiunse comunque gli scomposti gradini che conducevano al piano, dove scivolava l’acqua. Si fermò e portato il frusto fazzoletto al naso nel soffiarselo, attraverso la limitata vista che il gesto costringeva, colse la pietra scheggiata, quasi priva d’indicazione, che segnava la sepoltura, ormai vecchia di diversi decenni, di un pio uomo in odore di quella santità popolare, che nessuna gerarchia ecclesiale avrebbe mai preso in considerazione. Fu un sovrapporsi e concatenarsi di frammenti di pensiero, così da formare, senza una logica che potesse giustificarla razionalmente, l’informe nozione che veniva a compiersi nella testa. L’urgenza che si era materializzata, lo spingeva a ritornare sui suoi passi ed infilatosi nella canonica, raggiunse la sacrestia. Il pesante e malconcio armadio, oltre ai paramenti sacri, conteneva sul ripiano, più a portata di mano, il volumetto destinato in origine a contenere i conti della “Congregazione del Santissimo”, ma in seguito usata per altri scopi. Aprì la copertina di pelle marrone, incisa a torchio con disegni di fiori e ghiande e raggiunse la prima pagina intonsa. Era da pochi giorni parroco di Arcore, e dunque vergava questa prima annotazione sui fatti di quel giorno, tutt’altro che comuni e che per il suo intero mandato, non avrebbero avuto eguali per concorso di popolo.
1612 Adi 12 Giugno
Memoria come in Arcoro si fece una solene Processione delle S.te Reliquie, la quale venne da S.to Martino ad Arcoro, et la croce la fece spedire il S.r Mauritio Visconte (a proprie spese?) vi erano quatro trombetti, doi (reghali?), musici almeno 16, vi concorse popoli (per) quatro mille persone (con pure ..e ? così pure ?) vi erano 40 (guerieri?), vi erano 50 soldati, 20 labardieri, et ogni cosa (fu fatto ? passò ?) bene, senza rumore, et strepito ad honore di Dio, et de suoi Santi
Berta Parroco
Abbiamo voluto “colorare” il momento in cui il parroco di Arcore, Gioseffo Berta, il 12 Giugno del 1612, un martedì di un anno bisestile, appuntò quelle singolari note che abbiamo appena riportato. Un evento senz’altro particolare per il supposto importante concorso di popolo, di apparato e di rappresentanza ufficiale coinvolti, destinato comunque a rimanere relegato al puro fatto di cronaca, lontano nel tempo, se altre evidenze non fossero emerse, per ricomporre quel disegno che abbiamo voluto riassumere nel titolo dell’articolo.
Tonino Sala, aveva registrato nella sua memoria, l’annotazione del Berta, da diverso tempo. Recentemente in quel laboratorio utilizzato all’interno del centro parrocchiale, dove tra l’altro nascono quei magnifici presepi, che fanno bella mostra, durante le festività natalizie, in Sant’Eustorgio e non solo, è apparsa alquanto malmessa una croce in legno, con un elegante basamento, bisognosi di qualche cura per essere rimessi in sesto. Non scontato unire i due indizi, ma Tonino l’ha fatto. Dalla certosina ricerca d’archivio, un elemento dopo l’altro, hanno trovato la loro corretta collocazione, spingendo sempre più la speculazione proposta, verso una verità, che poteva sembrare impossibile. Mancava ancora un passaggio. Va bene la processione del 1612 e la croce con le reliquie, ostentata quel giorno e giunta sino a noi, ma quale poteva essere la loro provenienza? La prossimità dell’evento arcorese del 1612, con quanto narrato nel romanzo di Sebastiano Vassalli, “La chimera”, ispirato a fatti storici, svoltisi nel novarese, nello stesso periodo, sono serviti a chiudere il cerchio. Al termine di questa necessaria introduzione, apprestiamoci ora a seguire nel dettaglio la ricerca storica sortita e le necessarie divagazioni che il discorso affrontato ha stimolato, sicuri della sorpresa, che ha coinvolto noi stessi, nell’emozionante ricostruzione.
IL DOCUMENTO
La pagina del documento proposta sopra, sulla quale è descritto l’avvenimento, fa parte di un piccolo registro (19×23), custodito nell’archivio parrocchiale, dalla copertina rivestita in sottile pelle che reca incisi a pressione, oltre all’anno in numeri romani, motivi decorativi a fiori stilizzati e a ghiande. Il libro raccoglie, rilegati, alcuni fascicoletti, ottenuti piegando a metà alcuni fogli, uso quinterni, che documentano vari fatti della Cura di Arcore, compresi in un periodo che va dal 1578 al 1620. La data stampigliata sulla copertina del registro (MDLXXXV) prova che la composizione di questi in un libro fu fatta in un tempo successivo alle prime annotazioni.
La nota, stesa su carta abbastanza robusta che l’età ha reso di colore giallognolo, è fatta con un inchiostro color seppia che la penna d’oca sfuma nei tratti sottili; il corsivo non è sempre facilmente leggibile sia per le abbreviazioni sia per alcune sigle quasi stenografiche che ne rendono difficile l’interpretazione.
Così che: Mem.a sta per memoria; Process:e sta per processione; S.te sta per sante; la lettera “v” è resa con “u”; S.r sta per Signor; la lettera “z” di Maurizio è resa con “ti”: Mauritio; la sigla “pro”priisexpensis seguita da un’altra sigla stenografica, dovrebbe significare “a proprie spese”; rispetto alla lingua corrente mancano alcune doppie; la “g” dura è resa con “gh” anche davanti alle vocale “a”; “per” è reso con una sigla, anche in “per”sone; labardieri sta per alabardieri; un simbolo stenografico sta per “fu”; la ”ẽ” va intesa come “en”.
Come abbiamo visto il documento fu redatto dal curato (Cur.s – curators) Berta, che si firma in calce al documento. La firma risulta ripassata con un inchiostro più scuro, difficile interpretare la sottolineatura, forse opera dello stesso curato, oppure un intervento a posteriori di chi preoccupato che la firma diventasse illeggibile per il tempo trascorso, ha voluto ravvivare la scritta.
Il curato Berta resse la parrocchia di Arcore per 34 anni, riportiamo alcuni avvenimenti che caratterizzarono storicamente quel trentennio,
−1621 muore papa Paolo V, gli succede Gregorio XV;
−1623 muore Gregorio XV e viene eletto Urbano VIII;
−1627 inizia la guerra del Monferrato al seguito della quale i Lanzichenecchi, diretti all’assedio di Mantova attraverso la Valtellina, portano la peste nel Ducato di Milano;
−1629-1632 si diffonde in tutta l’Europa meridionale un’epidemia di peste che provoca milioni di vittime;
−1631 muore il cardinale Federigo Borromeo, gli succede Cesare Monti.
−1644 muore papa Urbano VIII, viene eletto Innocenzo X.
Abbiamo ancora l’opportunità di approfondire la figura del personaggio, attraverso le azioni proprie del suo ministero, stralciando da “Arcore, un popolo, la sua chiesa e il suo territorio” .
IL TERZO CURATO – Gioseffo Berta (1612 -1646)
A Gio: Batta Cremona, succede prete Gioseffo Berta. La sua prima annotazione, fatta sul vecchio libro intestato da Mozato, è un matrimonio del 25 luglio 1612. E’ Berta poi che, sempre sul vecchio libro, nel 1620 dà inizio alla registrazione dei Battesimi, nel 1628 delle Cresime e dal 1643, in concomitanza con l’apertura di un nuovo registro, alla annotazione dei morti. Il nuovo libro viene intitolato a tutta pagina:
1643
IN HOC LIBRO
REPERIUNTVR NOTATI,
QUI SACRAM,
BAPTISMI, MATRIMONII, CONFIRMATIONIS
SUSCEPERVNT,
IN HAC PAR.LI ECCL.A
ET
QUI MORIVNTVR
Si tratta di un volume ponderoso, di 300 fogli, che registra i battesimi dal 20 maggio 1643 al 12 maggio 1686, i matrimoni dal 22 maggio 1643 al 16 gennaio 1697, i morti dal 20 maggio 1643 al I° dicembre 1695 e le cresime
Nel corso del suo ministero, in 34 anni, Berta, registrò 229 matrimoni (25 luglio 1612 – 25 marzo 1645) 6,73 media/anno; 637 battesimi (27 aprile 1620 – 28 dicembre 1645), 31,85 media/anno; 43 morti (20 maggio 1643 – 7 gennaio 1646) 17,20 media/anno. Di seguito alcune di queste registrazioni.
Il 28 luglio 1628 “…Mons.Rev.mo Vescovo di Bobio come suffraganeo all’Ill.mo S. Card. Arciv.vo di Mil.o fu a Vimercato et amministrò il S.to Sacr.o della Cresima nilla chiesa collg.ta di S. Stiffano a quelli della cura di Arcoro, come segue cioè…” seguono i nomi di 36 cresimati, ragazzi ed adulti, l’ultima della serie “…Marg.a di Cesare Cataneo, comadre Catarina Marigalla di Vimercato…“
Il 27 agosto 1642 “…Notta di quelli ch’hanno riceuto il S.mo Sacr.nto dilla Cresima da Mons. R.mo vecovo di Bobio. In Vimercato l’infr.ti cioè…“. La cerimonia non fu completata in tempo utile, una parte dei cresimandi dovè essere rimandata ed il completamento avvenne “…ab code.na Ill.mo Episcopo adì 29 agosti Cresmati a Lesmo…” seguono 104 nomi di giovani ed adulti, l’ultima è “…Dom.ca di Dionisio Piroti, comadre Marg.a Sartirana…“.
Negli anni 1629-1630, portata dai mercenari svizzeri, scoppiò la famosa “peste del Manzoni” che, anche se non con l’incidenza di quella detta di san Carlo, (1576-1577), ridusse notevolmente la popolazione. Non era ancora in vigore la trascrizione dei morti, possiamo però dedurne la portata dalla notevole riduzione del numero dei matrimoni, una volta ricompattati vedovi e vedove sopravvissuti (tra il 1630 e il 1634 furono celebrati 61 matrimoni; tanti quanti ne vennero celebrati poi nei successivi 15 anni).
Sul registro dei battesimi risulta che vi furono alcune cerimonie celebrate in casa e non in chiesa per sospetto di peste:
“…26 7bre 1630… …di Fran.co Naua et Marga. jugali… batizato da me Cur.o sud.o a casa per sospeto di pesti… senza le sacre cerimonie…“
viene inoltre registrata l’esistenza di un luogo denominato “le gabane“, probabilmente una specie di lazzaretto dove si collocavano i malati ed i convalescenti e dove il curato si recava ad amministrare gli eventuali battesimi :
“…2 8bre 1630 … … di Pietro Sala e Ang.ajugali… naque alle gabane e fu batezato da Lauora Sala sua suocera per necessità…“
Sempre dal libro dei battesimi rileviamo alcune particolari note che esulano dalla specifica registrazione a cui il libro è dedicato, come la prima che riproponiamo, oppure, aggiungono indicazioni, che ci piace sottolineare.
“…15 gennaio 1613… … S. Defendente solennizzato in Arcore per devotione et consuetudine…“; anche nella vicina Lesmo questo santo aveva una devozione particolare tanto da essere messo a decorare l’ingresso della cappella che sorge a lato della chiesa parrocchiale
“…Margarita Brambilla del Misurato…” la cascina esisteva già, confermando la vetusta età del luogo.
“…26 8bre 1630… Pietro di Margarita Fumagale (non c’è il padre)… …batezato da me … per necesità in casa di Cecilia Nava la ghe servij da comadre, tralasciando le sacre cerimonie per degni rispeti…”;
“…14 9bro 1632… Catarina di N.N… la comadre è stata Cecilia Nava levatrice, la quale è informata del padre et madre…”;
“…23 giugno 1633 … Lucia trovata sopra la porta di Ambrosio Pagano con un colarino senza batesimo. E’ stata batezata da me curato sotto condizione et fu mandata all’hospitale…;
“…3 7bre 1637… Giulio di Lodouica Brivia e dice lei medesima essere vidua di M.Filippo Rò… è stato batezato da me Cur.o sud.o portato alla chiesa da Mad. Anna madre della Lodovica et levatrice, per compadre fu il S.r Carlo Rioto che a caso si è trovato qua p. essere padrone della casa dove habita la Lodovica…”;
“…20 luglio 1641 … Domenico figlio di N.N. ritrovato sopra la porta della chiesa senza policino di batismo è stato batezato da me e dopo essersi ricercato il padre inviato all’hospitale…”.
L’ultima sua nota è del 7 gennaio 1646 e riguarda la morte di:
“…Giosiffo Branb.a d’anni 60 morto adì 7 genaro ha prima riceuti li SS.i Sacri. della pen.a et estrema oncione…”
Il curato Berta morì il 13 gennaio 1646 dopo 34 anni di permanenza ad Arcore; questa è la registrazione:
“…Adì 13 Gen.o 1646 passò da q.ta à miglior vita il M.to R.do sig.r Gioseffo Berta Curato di q.ta terra d’Arcore d’anni 63 in circa hauendo rice.to il Sac.to della penitenza, et racom.ne d’Anima…”
L’ANNOTAZIONE DEL CURATO BERTA
Ritorniamo dunque al contenuto della nota fatta in quel Giugno del 1612 da Gioseffo Berta, da pochi giorni parroco ad Arcore.
Si parla di “Processione delle Sante Reliquie” (rimandiamo alla pagina, appositamente redatta, per approfondire l’argomento reliquie) senza precisare di chi siano, di quale santo o santi fossero? La data della manifestazione, 12 giugno, per quanto concerne santi venerati, dei nove che la lista di Internet presenta per questa data, nessuno offre spunti deduttivi tali da generare una ipotesi di processione in suo onore… però… in parrocchia esisteva ed esiste, ormai ridotta a cimelio da restaurare, una croce un po’ particolare che faceva da reliquiario.
Nella prima metà degli anni novanta del secolo scorso, quando era ancora integra, ebbi la ventura di vederla da vicino e di fotocopiare il cartiglio annesso che portava la certificazione di una delle ispezioni alle reliquie fatta dalle competenti autorità religiose (N.d.R. Il documento che in un primo momento si pensava smarrito, è stato poi rinvenuto nella pertinente parte dell’Archivio Parrocchiale, l’immagine riproduce l’originale) :
Riportiamo il testo:
Actu personalis visitationis
Sacras Reliquias, que reperiuntur in hac cruce (examinatij
duobus testibus nomae Joanne Radaello annorum septuagin-
ta quinque, et Aquilino Meragallio annorum quadraginta
septem, qui affirmarunt semper expositas fuisse publice
adorationi) u(v)idit, examinau(v)it, et sigillo obsignau(v)it
hac die 22 8bris 1745
Joannis Antonius Vismara Can. Ord. Poen. major Visit.
… Regionis
l’autorità ecclesiastica delegata alla periodica ispezione e alla certificazione, in questo caso, era un personaggio, possidente arcorese, che dimorava in quella che più avanti nel tempo sarebbe stata chiamata “Corte Valerio” o anche più propriamente, “Curt di Sensai”, cioè la corte che oggi separa la Via Montegrappa dall’accesso esterno all’ex Scuderia: Joannis Antonius Vismara, Canonico ordinario, Penitenziere maggiore e Visitatore regionale (per conoscere meglio la vicenda dei Vismara arcoresi, rimandiamo all’articolo: L’Oratorio della B.V. Immacolata e i Vismara), certifica l’ispezione, anche qui non viene rivelato di chi siano le reliquie.
Joanne Radaello (75 anni) e Aquilino Meragallio (47 anni) testimoniano che la croce, a loro memoria (che nel caso del Radaello poteva risalire agli anni attorno al 1670), era esposta alla venerazione dei fedeli da sempre e questo potrebbe far supporre che si tratti proprio di quella per la quale era stata organizzata la processione, cioè quella che ancora gira nel laboratorio parrocchiale, quella che il “Signor Fabrizio Visconte” fece spedire? Qualche perplessità nell’assegnare un significato preciso al verbo “spedire” che rimane comunque legato nel testo “a proprie spese”, forse da intendere per mandare? e se si, da dove e per chi? oltre che per la processione, per la dotazione della parrocchia? Che nella famiglia ci fosse la predisposizione a seguire la Chiesa nelle sue necessità c’è anche testimonianza, poco più avanti nel tempo, sempre di mano del curato Berta, della donazione di un tabernacolo e di alcune borse per il calice, riportate l’anno dopo come notizie sullo stesso libro di cui abbiamo detto (rimandiamo ad un prossimo articolo l’interessante documentazione, relativa al tabernacolo).
Fabrizio Visconte (Visconti), non è noto a quale ramo dell’estesa famiglia appartenesse, troviamo un Fabrizio fra i Visconti di Cislago verso la fine del 1500. Negli “Stati d’Anime” degli anni 1574 e 1588, rilevati casa per casa indicandone i proprietari, in paese, non risultano attribuiti possessi di case ai Visconti, non si può però escludere che fossero già proprietari di terre.
La prima citazione di un Visconte sui libri Parrocchiali è del 1604: Antonio Visconte testimone di nozze il 9 giugno; la presenza di costui è continua, infatti è presente sempre in qualità di testimone anche in molti altri matrimoni negli anni seguenti, quindi si dovrebbe supporre che fosse residente. Non è noto il rapporto di parentela col Fabrizio della “memoria”.
Nel 1721, oltre cento anni dopo l’avvenimento narrato, alla rilevazione catastale generale, i Visconti sono elencati fra i proprietari di case e terreni, mentre sono quasi totalmente spariti i “Casate” ben presenti nel 1574 e 1588 – alcuni di questi beni nel proseguo del tempo risulteranno poi dei Visconti. (Questa citazione che sembrerebbe fuori luogo nel racconto, a una quarantina d’anni dal fatto, ha la sua giustificazione nel fatto che questa famiglia era imparentata per via di matrimonio con Andrea Simonetta castellano di Monza “…Il fratello di Cicco, Andrea, ben collocato come castellano di Monza, sposò una nobile milanese, Caterina di Filippo Casati. La famiglia della sposa aveva come riferimento ‘comitatino’ la località brianzola di Casatenovo e godeva di un certo prestigio tra i ceti nobili della Milano del tempo. Probabilmente il matrimonio fu vantaggioso per entrambe le famiglie…” e proprietario del livello di tutti i beni dell’ex monastero del San Martino di Arcore, a dimostrare ancora una volta l’osmosi di proprietà fra consanguinei e collaterali che lega tra loro Simonetta, Visconti, Casati, Cazzola, Giulini, d’Adda, Durini, ecc.)
Fabrizio Visconte doveva essere un personaggio importante per essere in grado di mobilitare un apparato celebrativo così impegnativo: 4 trombetti, 2 regali, 16 musici, 4000 persone, 40 guerrieri, 50 soldati, 20 alabardieri. Curiosa la distinzione fra trombetti e musici, che Internet in “Le trombe nella trattatistica musicale del XVII° secolo” spiega molto bene, e quella fra guerrieri, soldati e alabardieri: facile attribuire alabardieri ai portatori di alabarda, un po’ più difficile l’altra distinzione; rimane nell’incertezza capire chi fossero i “reghali”.
Berta nella sua “memoria” mette ben in evidenza l’apparato scenico civile ma nulla dice a proposito dell’apparato religioso: prelati? preti? associazioni religiose? baldacchino? paramenti per le strade? cerimonia di benedizione con le Reliquie? Si accontenta di costatare la serietà dei comportamenti nel festoso avvenimento, concluso “senza rumore e senza strepito” a maggior gloria di Dio e dei suoi Santi, si suppone, nella piccola chiesa parrocchiale del tempo.
È noto lo schizzo della chiesa disegnato dal curato Tagliasacco pur posteriore di un centinaio di anni: che l’edificio fosse lo stesso del 1612?;
“…la chiesa parochiale è con titolo di S:Eustorgio Pontefice e Confessore… fabbricata in un sito un pocco eminente, ed è di tre navi diviso da colonnette di marmo con la porta che riguarda l’occidente, a dirimpetto all’altar maggiore oltre i quale vi sono altri tre altari uno della B.V.M. del SS.mo Rosario, l’altro di S. Antonio da Padova, e l’altro di S. Margarita, a cui (di fronte) è il suo battistero, e il suo campanile con tre campane, e il suo orologio, ed ha la sua sacristia completamente capace, e provvista di supelletili… …avanti la porta maggiore è situato il cemeterio cinto di muro d’altezza di due brazza circa…”
Una descrizione, precedente a quella appena menzionata, risale a “Guifredus de Buxeropresbyter de Rodello” verso la metà del 1200: “…Ecclesia S.Eustorgio in loco Arcuri… con altari dedicati a santa Maria e a sant’Ippolito…”.
La chiesa del 1612 era probabilmente qualcosa di intermedio adattato di volta in volta al mutare dei tempi e delle necessità.
Rimane ancora da chiarire: come mai la processione prenda il via dal San Martino, considerando che la vecchia strada per il San Martino e le cascine del Lambro, passando a lato della attuale villa svoltava a retro dell’ex Cinema Apollo per confluire sulla strada per Peregallo e quindi per il paese e la Parrocchia, aveva poco di ornato da presentare. Immaginare la moltitudine che si snoda in un lungo corteo processionale nel percorso per le quattro case del paese, passare la Molgorana e affollare il piccolo sagrato-cimitero per affluire alla Chiesa riporta alla memoria scene religiose nell’Arcore di un tempo oggi quasi totalmente svanite anche nelle memorie più vecchie.
Non abbiamo ancora risposto al come mai?
Considerato che nel 1612 la proprietà del S. Martino è ancora dei Simonetta, sembrerebbe che ci possa essere un legame di parentele dirette o collaterali e nella realtà delle ricerche nelle cronache e nelle genealogie risulta che Cicco Simonetta sposò nel 1452 una Visconti figlia del segretario ducale Gasparo, quindi la parentela fra le famiglie aveva già alle spalle 150 anni di storia. Al tempo (1612) la proprietà dell’ex monastero, acquistata a livello da Andrea Simonetta governatore di Monza (dal 15 maggio 1450) nel 1454, è ancora integra (si dissolverà più avanti con cessioni per dote, vendite ai Cazzola, cessioni al luogo Pio di San Giacomo de’ Pellegrini e con la definitiva vendita al Giulini che con pazienza ricomporrà poi integrandola l’intera proprietà), nella struttura originale, le opere di ristrutturazione del luogo con nuove cascine e i primi interventi a gettare le basi di quella che sarà la “villa” vera e propria ha già avuto luogo, lo “Stato d’Anime” dell’epoca elenca, per il San Martino, quattro case, tutte dei Simonetta, con un totale di una quarantina di persone.
LA PROCESSIONE
Una delle prassi diffuse a partire dall’XI sec. è quella delle ostensioni. L’ostensione o le processioni con le reliquie sono occasione di grande festa per le comunità che le custodiscono.
Queste manifestazioni di fede avvenivano particolarmente quando nuove reliquie erano consegnate quali dotazioni permanenti alle varie parrocchie e specialmente all’arrivo di queste dai depositi o dai luoghi dove queste erano già state confezionate in reliquiari più o meno preziosi e artistici.
Riportiamo, non a caso, la cronaca di uno di questi avvenimenti, proposta nella biografia di un personaggio, Carlo Bascapè vescovo di Novara, che si incontrerà verso la fine del racconto. (N. d. R. Dalla stessa fonte ha attinto, lo scrittore Sebastiano Vassalli, in occasione del suo romanzo “La chimera”, di cui abbiamo fatto cenno, in apertura).
“Delle ossa dunque di questi corpi il Cam(v)agna e il Casella riempiute sei casse s’inviarono, e a 18 di Maggio, l’anno 1603 giunsero alla chiesa di san Martino, detta del Basto alla costa del Tesino. Ove a nome di Carlo venne Oratio Besozzo, suo vicario Generale, ad incontrarle, e riconoscerle e fecevi assistere del continuo chierici e sacerdoti, e recitar salmi, e gente che le guardassero havendo dato ordine, che intorno a un’hora di notte tutte le chiese delle circonvicine terre sonassero a festa le campane; il che udito dalle altre già avvisate e tutte ripigliando il suono, riempirono tutto il paese di una insolita allegrezza e pietà. Dipoi a 20 del medesimo le fece solennemente condur verso la città: concorsovi il clero, e i popoli vicini in tanta frequenza, che detta chiesa di san Martino per sette miglia di strada quasi durò continuamente la processione. Eranvi belle, e grandi compagnie di huomini armati, i quali per modo di guardia accompagnavano que’ pretiosi pegni. Il carro, sopra il quale si conducevano , pomposamente e in modo trionfale ornato, da quattro bianchi destrieri condotto. Uscì loro incontro il resto del clero della città alla predetta chiesa di san Michele nel borgo, ove disposte in sagrestia, e chiuse, vi rimasero e guardie, e chierici, che a vicenda celebravano gli uffici de’ martiri. Furono intanto tutte le strade, per le quali havevano a passare, purgate, coperte, e abbellite, e eretti festosi altari e fabbricati varj archi, con belle ingegnose invenzioni, e inserittioni, e dipinture, e imprese. I seguente giorno, ch’era la terza festa di Pentecoste, ordinata di nuovo la processione di tutto il clero secolare e regolare, con gran festa e musiche, e suoni di trombe, sopra ornatissime tavole, portate su le spalle da chierici e sacerdoti, furono que’ sacri depositi portati alla chiesa cattedrale. Predicò il P. Agostin Gonfalonieri della compagnia di Giesù, dell’onore dovuto alle reliquie de’ Santi: e tutto il restante del giorno stettero esposte alla venerazione del popolo.”
Ritorniamo ora alla processione arcorese. Nell’illustrazione (stralcio di mappa del 1721, certamente il paese è già abbastanza diverso, rispetto al 1612, tempo di cui si parla, circa 350 abitanti in più), è indicato il percorso della processione; la nuova conformazione del San Martino ha già preso corpo, ma ci penseranno poi i Giulini a dargli l’aspetto definitivo.
Quindi fra Simonetta, Visconti e quasi certamente il curato Berta, senza dimenticare il “prevosto” di Vimercate capo-pieve, a dare una continuità storica ai luoghi sacri del paese, viene organizzata la processione della croce con le reliquie, dalla chiesetta dell’ex monastero di San Martino alla parrocchiale.
A meno che si tratti di una dimenticanza dell’estensore della “memoria”, sembrerebbe molto strana l’assenza dei d’Adda alla celebrazione dell’avvenimento; in paese, nel 1612, avevano già da tempo notevoli proprietà sia in case, cascine e terreni, inoltre, che ci fosse una villa è certo, risultando negli inventari dei passaggi di eredità, però non è noto se fosse quella al piano, nella sua conformazione pre-settecentesca o altra in altro luogo; il possesso dei beni arcoresi, dopo essere stati della moglie di Costanzo, Bianca Beccaria, erede di Costanzo (così almeno sembra dal titolo di proprietà attribuitogli dal curato Mozato nello Stato d’anime del 1588), i titoli passarono a Francesco (1571-1644), figlio legittimato di Costanzo e di Caterina da Gallarate. Nel 1612 Francesco, conte di Sale, ha già una quarantina d’anni e molte proprietà fondiarie alle quali porre le cure, ci fosse o non ci fosse alla cerimonia non si può dire.
LA CROCE
Giungiamo dunque alla descrizione ed al commento della malridotta “croce reliquiario” oggetto di questa ricerca.
Nell’archivio parrocchiale, nel foto inventario degli oggetti, ordinato negli anni 60-70 del secolo scorso dalla diocesi, la croce è presente, al tempo certamente in miglior stato. Risulta un grossolano errore l’attribuzione dell’oggetto al secolo XIX .
Il degrado della croce è evidente: la polvere guasta l’intera struttura, la croce oscilla nel suo basamento, una delle decorazioni metalliche poste sui vertici è crollata, all’interno di alcune teche, la reliquia vera e propria e il cartiglio staccatisi dal loro supporto giacciono sul fondo, e il cartiglio che certificava la genuinità delle reliquie è sparito.
Si crede di poter affermare che si tratti proprio della croce per la quale il curato Berta ha scritto la “memoria” relativa. Un piccolo intervento di pulizia e riparazione del pezzo staccato a cura di Giampietro ed Eugenio consente di presentare alla cortesia di Carlo Bestetti e al suo obiettivo una “Reliquia” del tempo e della fede… fotografabile, le immagini sono quelle che si presentano:
400 anni compiuti; è, dopo alcuni libri-registro presenti in archivio, forse l’oggetto più antico della parrocchia. Nel corpo della croce sono inserite 12 minuscole teche contenenti ognuna reliquie e cartigli recanti il nome del santo e la provenienza della reliquia; anche nel supporto di base sono ricavate 6 teche anch’esse complete di reliquie e cartigli. Nella teca centrale del basamento un piccolo sacchetto contiene probabilmente terra proveniente da qualche luogo santo che potrebbe anche essere Gerusalemme.
All’incrocio delle braccia una teca particolare contiene una piccola croce leggermente incavata che probabilmente custodisce la reliquia più importante (stauroteca?), non si riesce a leggerne la descrizione nel cartiglio.
Dall’analisi fatte sulle varie teche che compongono la croce, siamo in grado di elencare una serie di nomi di martiri, le cui reliquie sono contenute all’interno. Non tutti i cartigli che identificano il martire sono decifrabili e in qualche caso risultano danneggiati in modo irreparabile. L’elenco comprende: S. Vitalis, S. Metij, S. Iuli, S. Agapi(?)i, S. Sixti, S. Thadel, S. Donati, S. Exuperantiae, S. Lucij. La ricerca per conoscere altri particolari su queste reliquie è in corso, ci ripromettiamo, in occasione del prossimo post in cui si parlerà dei doni elargiti dai Visconti alla parrocchia di Arcore ed in particolare del tabernacolo, d’integrare anche questa parte.
Il retro della croce è chiuso con una tela robusta e su questa vi sono apposti sigilli di ceralacca, a garantire l’integrità delle reliquie:
Uno dei sigilli in ceralacca, potrebbe essere quello apposto dal Vismara durante la sua ispezione, nel testo rilevato dal cartiglio originariamente posto sul retro del piedistallo, sembra di poter leggere anche di un sigillo comprovante l’ispezione.
Dove e da chi fu costruita la croce, dotandola di tante reliquie rimaneva comunque un mistero.
AGGIUNTA PRIMA
Si pensava di aver concluso il racconto quando la curiosità di Paolo Cazzaniga ha rintracciato sulla rete notizie che raccontavano come nel tempo, di cui trattiamo, era sorta una diatriba fra le autorità religiose in merito alle dotazioni e all’autenticità di reliquie cavate dalle catacombe romane da tombaroli sacrileghi che ne facevano poi commercio e in buona fede, da zelanti devoti, a ciò dai superiori delegati, accumulate e inviate per farne dotazioni e donazioni alle varie chiese. E appunto da Internet una minuziosa ricerca rivela questi aspetti che finora, almeno per quanto mi riguarda, erano totalmente ignorati.
Si tratta di una approfondita ricerca condotta da Massimiliano Ghilardi dal titolo “Il vescovo, il pittore e le reliquie. Carlo Bascapè, Giovanni Angelo Santini detto il Toccafondo e le catacombe romane”.
Il racconto, debitamente annotato con riferimenti a documenti storici certi, svela un certo modo di agire in quel tempo e le azioni messe in atto per impedire il sorgere di devozioni a reliquie che di santi non erano; non si starà a ripetere e commentare quanto pubblicato che rimane comunque a disposizione di chi volesse approfondire la conoscenza del fenomeno.
Inoltre, la biografia di un vescovo, venerabile e in lista per la santificazione, scritta da un correligioso, certamente parziale fonte dello studio precedente, come risulta nelle note, rivela alcuni particolari che potrebbero confortare le supposizioni inerenti alle vicende della “nostra” croce-reliquiario per specifici riferimenti e analogie di tempi e fatti.
È necessario però prima inquadrare tempi, luoghi e personaggi; ne abbiamo nominato alcuni senza però entrare nel dettaglio per meglio cercare di conoscerli e di appurare, se esistono, legami di parentele o conoscenze che ne giustifichino il coinvolgimento nel racconto.
Al tempo dei fatti narrati dal Ghilardi (1593-1625); il Ducato di Milano è soggetto alla Spagna (dal 1535 e lo sarà fino al 1714) che in loco mantiene un governatore.
Arcivescovi di Milano, in successione sono:
-Carlo Borromeo (1538-1584) nominato arcivescovo nel 1564; Carlo Bascapé (1550-1615) ne è il segretario e, più avanti nel tempo, 1592, ne scriverà anche una biografia;
-Gaspare Visconti (1538-1595, arcivescovo dal 1584), dopo essere stato vescovo di Novara per un breve periodo (1583), al quale succede qualche tempo dopo sempre come vescovo di Novara, (1593) Carlo Bascapé;
-Federico Borromeo (1564-1631, arcivescovo dal 1595). Quindi nel 1612 è lui il primate dell’archidiocesi.
Due sorelle di Federico Borromeo hanno sposato dei Visconti di due rami diversi della famiglia (Laura sposa nel maggio 1572 Francesco Visconti da Masino; Isabella sposa nel 1575 Gerolamo Visconti di Carbonara, andando a risiedere a Groppello); che il “nostro” Maurizio provenisse da una di queste famiglie? Non si riesce a venirne a capo mancando il dettaglio degli alberi genealogici onde ricostruire i discendenti.
Che ci fosse stato un rapporto tra il Bascapè e Gaspare Visconti e tra l’arcivescovo di Milano Federico e il Bascapè diventato Vescovo di Novara è facilmente pensabile … prima di continuare facciamo un attimo di sospensione per vedere come va a finire la vicenda delle reliquie, riassumendo la sezione della storia, relativa al capitolo “reliquie”, scritta dal Chiesa correligionario, nel 1635 nella biografia del vescovo Bascapè. (al link la riproduzione originale dal testo citato)
La vicenda racconta di Gio Battista Cavagna, personaggio di “mezzana condizione” che verso la fine del 1500, lascia la città natale Momo, prossima a Novara, per portarsi al servizio, quale “mastro di casa” della nobile famiglia Mattei che tra l’altro annoverava un personaggio di rango come il cardinale Ieronimo. Nel soggiorno romano trova occasione per acquistare reliquie sacre, con l’intenzione di riportarle poi a Novara. Si preoccupa comunque di procurarsi le necessarie autorizzazioni e certificazioni. Nel 1600, in occasione dell’anno Santo, con un cospicuo numero di reliquie, e con il beneplacito dei fratelli Mattei, rientra a Novara dove le stesse sono accolte con entusiasmo, dal vescovo della città, Bescapè. Il bottino, macabro nella descrizione, comprende “sei teste con gran parte del busto aggiunta: otto braccia di natural grandezza: e altri diece piccioli tabernacoli, con alcuna parte notabile di corpi “ Altre reliquie erano poi custodite in una cassa di cipresso, tutte identificate con i loro nomi. Tra il tesoro c’erano ancora i capelli e il latte di Maria, il bottino comprende poi un reperto, che per la similitudine con la croce di Arcore, ci riguarda da vicino. Questa la descrizione nel testo originale. “Vi era ancora una croce dorata con sedici piccioli fori: in ciascun de’ quali alcun bel pezzo di reliquia”. La dotazione approda nella chiesa di San Michele, appena fuori le mura di Novara e il 30 Luglio dello stesso 1600, con solenne processione a cui partecipa lo stesso vescovo Bescapè, le reliquie raggiungono la cattedrale cittadina, privilegiata per aver ricevuto, tra le altre, quelle di Maria. Diverse chiese cittadine partecipano alla donazione, non può mancare poi la chiesa di Momo, da cui il Cavagna proveniva. La distribuzione continua interessando comunità vicine e meno prossime, tutte le assegnazioni sono accompagnate dalla stesura di “istrumenti notarile”, che ne certificano il passaggio. Chiusa questa prima parentesi il Cavagna ritorna a Roma e questa volta in compagnia del canonico concittadino Flaminio Casella, riprende la raccolta di reliquie, sempre con l’intento di portarle poi a Novara. Entra a questo punto nella vicenda un nuovo personaggio, noto con il soprannome di “Toccafondo”, per l’abilità, grazie alla sua minutezza corporea, di penetrare gli anfratti più angusti delle catacombe, dove si celavano quei resti dei martiri, che i novaresi cercavano. Dietro il soprannome citato la figura di “Gio: Angelo Santini dipintore Romano” che aveva trovato la sua fama per i servigi offerti a Antonio Bosio Romano, autore dell’opera “Roma sotterranea”. Il Bosio, in quegli anni di fine ‘500, aveva esplorato le catacombe romane, di cui si erano perse le tracce e prodotto una poderosa documentazione al proposito, avvalendosi in una prima fase dell’opera del pittore Santini, per riprodurre in disegno le scoperte via via effettuate. Facile per il “Toccafondo” vista la nozione accumulata nell’esperienza con il Bosio, riciclarsi, come “tombaralo”, per individuare e recuperare quanto il Cavagna andava cercando. Sono principalmente le catacombe di San Lorenzo e San Sebastiano a fornire la nuova messe di reliquie. “Delle ossa dunque di questi corpi il Cavagna e il Casella riempiute sei casse s’inviarono, e a 18 di Maggio, l’anno 1603 giunsero alla chiesa di san Martino , detta del Basto”. Ad accogliere questa volta i due troviamo un vicario del vescovo Bescapè, Orazio Besozzo. Gli onori furono altrettanto grandi, che la volta precedente, così come la documentazione pareva esaustiva circa la genuinità dei reperti. Questa volta qualcosa non andò per il verso giusto. Da Roma, una volta giunta notizia del clamore novarese legato alle reliquie, si sporsero dubbi sull’autenticità delle stesse. Si rese necessario l’intervento del papa Clemente VIII che diede disposizione al vescovo di Novara Bescapè di arrestare il Cavagna e di “congelare” le reliquie, riponendole sotto l’altare maggiore della cattedrale di Novara. Vista la mal parata, attraverso il vicario Besozzo, si cercò di mitigare la decisione romana, inviando il prelato presso il papa. Si riusci solo parzialmente nell’intento, ridando la libertà al Cavagna, mentre le reliquie rimasero in attesa di tempi migliori per divenire di dominio pubblico. Passarono sette anni ed alla morte di Clemente VIII, il vescovo Bescapè si portò a Roma per il conclave che avrebbe eletto Paolo V. Nell’occasione finalmente il vescovo di Novara, poté ottenere autorizzazione dal nuovo papa per sdoganare le famose reliquie, con la cura di destinarle a luoghi meritevoli, “ma senza pompa e apparato” .
Quindi, dalla biografia del Bascapè ricaviamo che i tempi della seconda distribuzione, dopo la sospensione (1603) e la “reclusione” delle reliquie nell’altare della cattedrale durata sette anni, sono molto prossimi al tempo della “processione” arcorese, e che a queste reliquie furono confezionati reliquiari degni di onorare i martiri le cui micro-spoglie custodivano. A rigore di logica, se ai tempi della scadenza dell’ordine di custodia (1610) aggiungiamo quello relativo alla donazione e alla costruzione del reliquiario necessario a custodire i reperti, arriviamo a formulare una analogia di tempi e celebrazioni del tutto assimilabili e compatibili con quella arcorese.
Evidentemente non si è in grado di fare affermazioni assolute mancando i documenti di consegna, ma, vista questa generosa donazione e considerati i rapporti di conoscenza fra i personaggi della vicenda, si potrebbe ipotizzare che le reliquie contenute nella croce di cui abbiamo trattato siano state consegnate al Visconti che, dopo aver dato loro la degna veste che, pur maltrattata vediamo ancora, ne fece dono (spedire) alla parrocchia.
In un paragrafo della storia, fra i modelli di reliquie che arrivarono a Novara col primo lotto, è citata: “una croce dorata con sedici piccioli fori …”: possibile modello per quella che ormai ben conosciamo, un motivo in più per suffragare l’ipotesi formulata.
AGGIUNTA SECONDA
Un’ultima curiosità, cercando notizie sul Bascapè, nella cronaca di Melegnano, suo luogo natio, si è trovata una notizia che potrebbe spiegare ciò che nel tempo si era dimenticato, e che costituiva l’assillo di don Carlo Giussani quando cercava di motivare la ragione del “Festone” che si celebrava la quarta domenica di agosto; sembra che a scioglimento del voto che fecero i melegnanesi in tempo di peste si celebrasse un rito speciale, trascrivo:
“…fra i riti legati a queste vicende occorre ricordare che la IV Domenica di Agosto si celebra la festa commemorativa del voto del 1630. In Chiesa si brucia un globo di bambagia e l’officiante recita: “Sic transit gloria mundi”…”
Anche ad Arcore la IV domenica di agosto si celebrava la festa del paese… che qualcuno avesse portato ad Arcore una similitudine di quanto si celebra a Melegnano? Possibile che le origini della festa fossero legate allo scioglimento di un voto fatto al tempo della peste anche per Arcore???
Siamo senz’altro nel campo delle più aleatorie supposizioni possibili, da cui traiamo l’opportunità per una rievocazione del tempo andato.
ARCORE – La festa del Paese, la Fiera: reminiscenze
La celebrazione della “Festa del Paese” o “Festone”, da tempi immemorabili, provata da alcuni documenti in archivio che non ne spiegano comunque la motivazione, cadeva la quarta domenica di Agosto.
La consuetudine era che, nel Paese, originariamente ad economia esclusivamente agricola, terminato il raccolto e collocato commercialmente il prodotto, una celebrazione civile-religiosa, posta nella pausa dei lavori, scaricava le tensioni della speranza del “régoei” in quella minima gratificazione della “festa” quando, tra visite fatte o ricevute tra parenti extra-paese, si ponevano anche le basi per la nascita delle nuove famiglie nell’attesa del proseguo delle solite traversie del vivere.
La festa religiosa, minuziosamente preparata a beneficio dell’anima, dalla “Grande Missa Solemnis” del mattino, officiata in pompa magna, che riceveva nell’antifona l’omaggio sonoro dalla stentorea voce baritonale del “Gilè”, culminava nella monumentale processione pomeridiana rutilante di stendardi, paramenti, ori, colori delle “confraternite” e banda musicale che, sul “passo di marcia” del “…noi vogliam Dio…” alternato alla storpiatura latina del “…sfrustus ventrus tuesus…” del “Bosin” si snodava infinita nelle vie del paese finendo in piazza nella “benedizione solenne”, concerto bandistico e asta benefica, dove le qualità di banditore di “Gusten dal sagrista”, issato sull’intercolumnio del pronao, venivano esaltate nel rimando cadenzato di offerte e controfferte. Il tutto sfociava nel mesto “Ufficio generale pro-defunctis” del lunedì mattina, con processione pomeridiana al cimitero che legava il passato al presente e, attraverso la gioventù costretta dalle madri alla partecipazione, al futuro.
La “Festa” era l’occasione per radicali profonde pulizie in tutte le case: strati pesanti di fuliggine venivano meccanicamente rimossi con sabbia e potenti dosi di “oli da gumbat” e i rami splendenti, strategicamente disposti sulle “squallere” nell’ostentazione orgogliosa delle “masére”, abbagliavano gli occhi dei visitatori.
Era anche una delle rare possibilità che, con Natale, Pasqua e il giorno dell’uccisione del maiale consentivano ai “pover picch dai busecch schisciaa” di fare pieni memorabili di cui si poteva parlare nei “…ta sa regordat…” dei giorni di fame. Non sarebbe mancata né la “mica”: pane bianco di frumento che una tantum sostituiva la polenta e il “pangiald”, né la “turta da lacc”: un impasto mal cotto o troppo cotto di pane, biscotti, pinoli, cedro, limone grattugiato e cioccolato.
Per la “Festa” arrivavano in paese quelle strutture viaggianti chiamate “baracconi”, la quintessenza del divertimento: bancarelle di dolciumi, tirassegni gestiti da invitanti, provocanti donnine, giostre, altalene, e tutti gli annessi e connessi di scrocconi e imbroglioni che, nonostante la vigilanza della benemerita, non mancavano di fare vittime tra i più giovani e più sprovveduti che lasciavano sui banchetti volanti delle “tre carte” le magre mance. Nonostante le invettive che dal pulpito erano indirizzate a gestori e frequentatori (il tuono di don Magistrelli chiamava il luogo dove erano installati “Campo di Giuda”), la novità attirava giovani e anziani. D’altra parte, lo stesso “Campo di Giuda” era di proprietà della parrocchia, non solo, ma vi sono documenti che parlano di piazza “messa all’asta” per il festone, cioè la parrocchia riscuoteva il plateatico dai “bancarellieri”. Generazioni di piccoli arcoresi, col mento a livello dei tavoli d’impasto delle bancarelle disposte ai margini della piazza, avevano assistito al miracolo della trasformazione dello sciroppo di zucchero aromatizzato, bollito, steso sul piano di marmo, rivoltato, impastato, intrecciato e re-intrecciato con abili mosse sul gancio appeso al palo di sostegno del tendone, poi stirato in sottili strisce color oro diventava la “manna” dal profumo caratteristico di cannella che si insinuava allargandosi a raggio per le vie facendo da richiamo per la nutrita schiera di ragazzini dispersi per il paese.
Passò il tempo, l’evoluzione dalla vita contadina alla nuova economia industriale e nuovi curatori d’anime suffragati da massicce insinuazioni di estranei alle tradizioni paesane cominciarono a chiedersi i perché di tutto questo movimento, a loro parere, senza giustificazione né religiosa né storica, in particolare in un paese che adeguandosi alle nuove mode in agosto si spopolava. La breccia lasciata dai vecchi passati ai “quondam” e non sostituiti dalle nuove generazioni, desiderose solo di dimenticare al più presto quanto fosse grave l’impegno del vivere contadino, rese facile l’accettazione della proposta di passare dal “Festone” di agosto alla “Festa patronale” che finì per diventare, perdendo ogni caratterizzazione, la festa della “Fiera”, non certo del santo protettore. Addio alle imponenti manifestazioni religiose e rimozione totale di tradizioni e memorie.
Il racconto però non è finito, la verità storica richiede che chi è stato testimone delle ragioni profonde che da una battuta lanciata estemporaneamente condussero alla cancellazione di secoli di tradizione, narri la vicenda così come si svolse. Al tempo, negli stabilimenti, non era così facile ottenere permessi per poter partecipare alla Fiera, che come si sa, si svolge di lunedì, il terzo lunedì di settembre, e un certo malcontento serpeggiava tra la maggioranza dei lavoratori dipendenti che della fiera non riusciva mai a vedere qualcosa. Era ancora un periodo di transizione dove l’economia contadina conviveva con l’economia industriale, e qualcuno, con residui di conduzione agricola, ma che lavorava negli stabilimenti riteneva necessario potervi partecipare, in particolare poi se faceva parte del comitato organizzatore o era anche espositore. Vi fu un piccolo allevatore di vacche alla Palazzina, non originario di Arcore, turnista in Falck, modesto “capetto” al Parco Tondi, rappresentante sindacale, membro di associazioni parrocchiali, con qualche legame anche negli apparati comunali attraverso i comitati organizzatori della fiera, espositore, che stanco di battagliare per il sospirato permesso, nelle chiacchierate d’ufficio pre e post turno quando qualcuno partorì l’idea di stornare il “Festone” sulla Fiera se ne appropriò immediatamente: dalla ipotesi alla proposta il passo fu breve. Gli agganci politici, sindacali e religiosi consentirono una veloce trattativa e il “Festone” venne sepolto.