“RAVANEL” AGGIUNTE, CORREZIONI E ANCORA QUALCHE DIVAGAZIONE
Ritorniamo al “Ravanel”, la costruzione che all’epoca dei Marchesi D’Adda, controllava l’accesso alla proprietà. Ubicato nella parte nord del parco, era di fatto, la via d’accesso “nobile” visto che il fronte verso il paese, dove oggi è posto l’ingresso al parco comunale, all’epoca era occupato dalle case coloniche annesse alla proprietà e dunque poco signorile per ricevere la nobiltà che gravitava attorno ai D’Adda.
Tonino Sala, dopo le piacevoli e colte disquisizioni che ci ha proposto nei post precedenti, a cui rimandiamo (“Ul Ravanèl” e “Ai mort lungh“), completa nell’occasione il suo excursus sull’argomento. Mi piace segnalare, come a corona della sua chiacchierata, con un “antico” abitante del Ravanèl, Salvatore Cereda, abbia voluto, con la maestria che lo contraddistingue, impreziosire l’esposizione, con una serie di disegni, realizzati di suo pugno, che ben illustrano l’interessante testimonianza.
Da memorie verbali, di Salvatore Cereda di Giovanni, nato ad Arcore in “Corte Castello” nel 1927, trascritte e integrate.
Prima di iniziare quattro chiacchiere sul cognome Cereda.
Il Merati nel suo “Cognomi e soprannomi della Brianza” scrive:
“Evidentemente vuol dire cerreto (o cerreta), cioè bosco di cerri; trae dunque origine da un nome di piantagione, passato in seguito a designare un nucleo abitato. La forma Cereda è di timbro dialettale.
Non è facile stabilire da dove provengano i Cereda brianzoli, se da Cereda, frazione di Erve (Bergamo) o dalla omonima località in territorio di Rovagnate”.
Qualcuno però non è d’accordo. L’estensore del commento storico su Rovagnate (dedotto da Internet) attribuisce al nome della frazione Cereda una origine celtica: il nome originale, è confluito prima nel latino “agger” col significato di terrapieno, fortificazione, (che è proprio l’aspetto fisiografico del luogo), poi dalla dialettizzazione è stato deformato in Cereda.
Mentre l’Olivieri nel “Dizionario di toponomastica lombarda” si limita a enumerare le località senza dare molte spiegazioni sul significato:
“Cereda, fr. Erve, BG; altra fr. S. Maria Rovagn., CO; CEREA, fr. Guardamiglio, MI: CERRETA. Cfr. Ceradello – da Cerrus”
Infine, il ponderoso testo della UTET “ I cognomi d’Italia” (senza tentare nemmeno di spiegarne l’etimologia) riporta:
“Cerèda, Cèredi. I cognomi si confrontano con i numerosi toponimi Cereda (e Ceredo) sparsi in Italia. Il nome di famiglia Cereda interessa circa 2800 portatori, concentrati a Milano con Trezzo sull’Adda, a Monza con Arcore, nel Lecchese (Cernusco Lombardone, Robbiate) e in misura inferiore nel Bergamasco; potrebbe ricondursi alla località omonima nel Comune di Perego”.
E quattro sulla Corte Castello.
Il paragrafo che segue, scritto nel 1995, è tratto dal commento alla
Continuando l’opera di ristrutturazione e potenziamento degli ambienti da destinare alla coltura dei bachi, l’Arienti pose mano, fra il 1904 -1906, alla costruzione di una nuova casa colonica, denominata poi “Corte Castello”, applicandovi nell’esecuzione i massimi criteri di economia su architettura, spazi e materiali dimostrando una oculata attenzione nell’impiego dei capitali del padrone d’Adda.
La costruzione è ancora lì da vedere con accesso dalla via Montegrappa; le scrostature degli intonaci mettono ora in bella evidenza, sul lato sud, mattoni ormai “a vista” e sui muri, a filo di terreno che danno sulla via, il notevole assortimento di materiali eterogenei che nella relazione dice di aver usato: “…cotto usato…ciottoloni di cava…materiale di spoglio ancora in buone condizioni di durata ma vario di forma e qualità…”.
Dalla descrizione tecnico-costruttiva si riesce a dedurre anche qualche nota paesaggistica ed economica sull’Arcore del tempo circondata sul lato nord-ovest da ampi boschi collinari (è probabile che qualche …non più giovane …abbia memoria di questi luoghi, territorio di scorribande giovanili per alcuni e di assidue appassionanti ricerche micologiche per altri) che alla nuova costruzione fornivano travi e travetti ricavati dai pini “…facendoli segare da una macchina che abbiamo qui in paese…”, inoltre “…abbiamo in paese una fornace che produce mattoni…”: embrioni di attività extra-contadina, naturalmente oltre a quanto esplicato da fabbri e falegnami in produzioni strettamente legate alla conduzione agricola.
Presentazione della famiglia di Giovanni Cereda: – Filomena Ergnini, moglie; Emilia figlia di 9 anni che si sarebbe poi monacata presso le suore di Brentana (è lo stesso ordine che per oltre un secolo ha gestito l’asilo infantile di Arcore) col nome di Orsolina, ancora vivente alla bella età di 92 anni; Salvatore, di cui abbiamo già detto; ed Elio di mesi 9. La famiglia, ai primi di dicembre del 1930 dalla corte “Castello” si trasferì alla portineria NW di Casa d’Adda, appunto al Ravanèl.
Il Cereda sostituiva la famiglia Nava che vi abitava dal 1923, la quale, avendo avuto la disgrazia di perdere un figlio in quel luogo, aveva deciso di trasferirsi.
In precedenza la portineria era stata gestita dalla famiglia di Sala Natale che nel 1914 era subentrata ai Ravanelli dopo la nota vicenda. Il figlio di Natale, Dante, nato al Ravanèl nel 1916, che avrebbe esercitato la professione di calzolaio, era il padre del noto Piero, sovrintendente per anni e anni al cinema-teatro dell’Oratorio.
Quando vi arrivarono i Cereda la portineria era ancora priva di elettricità, sarebbe stata collegata solo nel 1935, per l’illuminazione si usavano lumi a petrolio (lücelina), lucerne ad olio (leum) e candele.
Era anche priva di acqua: il pozzo esistente era guasto e non poteva essere usato; per gli usi domestici una vasca, ancora esistente in loco, era rifornita a cura dell’amministrazione con una bigoncia montata su un carretto; per gli usi alimentari ci si doveva arrangiare rifornendosi alla Palazzina (distante circa 400 metri) con una damigiana collocata su una carriola da spingere a mano su e giù per la salita.
La riparazione del pozzo era continuamente rimandata dal fattore Scotti, il quale, si diceva, segnando a carico del padrone i viaggi per il trasporto della bigoncia, che non scaricava dagli appendizi dei contadini, ne lucrava i costi.
Poca terra era data in gestione per uso orto; per cucina e riscaldamento il camino, ancora in bella vista, e quella specie di custodia schermata riempita di brace e tizzoni accesi che va sotto il nome di “scaldin”; la legna da ardere, al tempo preziosa, era disponibile dalla ramaglia secca raccolta nel parco. Nell’inverno il riscaldamento del letto avveniva collocando lo “scaldin” in quell’attrezzo a forma di slitta conosciuto come “ul pret”.
I compiti di portinaio erano relativi al servizio di apertura e chiusura dei cancelli al transito delle carrozze, delle rarissime automobili, e dei carri di servizio; poi l’incarico di aiuto-giardiniere oltre all’onere di pulizia e ordine al piazzaletto e al viale di accesso.
Il conte Febo usciva in villa nell’estate e nel primo autunno, durante la sua permanenza organizzava cene e ricevimenti per i quali il fattore avvisava il portinaio a tenersi pronto al servizio di accesso e uscita senza far aspettare, visitatori e invitati che si servivano di quell’entrata. In particolare per il servizio nella tarda sera o addirittura notturno si richiedeva anche una adeguata illuminazione con fiaccole, torce e fanali del tipo in uso per le carrozze. Negli anni prima della guerra (1937-1938), in uno di questi servizi per un ricevimento al quale partecipava anche il conte Casati, tra gli altri, alla portineria del Ravanèl si presentò anche un’automobile con a bordo Churchill dal quale, per il servizio, rammenta Salvatore, ricevette una moneta.
I portinai del Ravanèl avevano la proibizione di attraversare il parco e per recarsi in paese dovevano seguire la strada esterna che circonda la mura del parco (strada di Murlùnch).
Un Miracolo?
Dice sempre Salvatore che attorno agli anni 1935-1936, ebbe l’occasione di assistere alla costruzione di una nicchia ricavata nello spessore del muro di recinzione all’angolo nord-ovest del “giardinasc” per inserirvi un altarino alla Madonna a memoria e ringraziamento per un “miracolo” del quale fu beneficata una donna della “Cava” di Peregallo.
Il fatto è abbastanza semplice (attenzione, si tratta di un racconto, circa l’effettiva veridicità nessuno è più in grado di testimoniare, quindi va preso per quello che è, cioè un racconto). La donna era venuta dalla “Cava” nei boschi di Arcore a raccogliere la solita fascina di rami e sterpaglie per il fuoco del camino, come usava allora per molte famiglie, e proprio lì, nel luogo dove la strada detta delle Spazzate si biforca facendo angolo con l’antico sentiero che, volgendo sul margine a destra del vallone, da una lato vi si immerge riprendendo verso la Fornace e dall’altro risale il breve pendio correndo poi sul confine del “Campo d’oro” (questa descrizione è riconoscibile solo da coloro che da ragazzini scorrevano per i boschi, oggi il luogo è ancora vagamente riconoscibile mascherato da recinzioni nell’invasione dell’opulenza economica); proprio lì, accelerando il passo nella leggera discesa, incespicò, e mentre invocava la Vergine, finì contro il muro di recinzione, batté il capo rimanendo a terra stordita. Venne la sera e i suoi famigliari non vedendola tornare si mossero alla ricerca. Dalla “Cava” al “Ravanel” c’è poco più di un chilometro, parenti e conoscenti arrivati sul posto trovarono la donna inginocchiata su una pietra devotamente intenta alla recita del rosario. Le spiegazioni furono istantanee e l’annuncio di aver visto la vergine che gli faceva da sostegno nella caduta, in breve, corse per tutta la zona.
Questo è il racconto, la costruzione del piccolo altare è una realtà, come abbiamo detto, testimoniata dal ragazzo Salvatore che vide all’opera gli uomini della “cava”.
L’altarino ora è sparito, crollato nella valle col muro di recinzione, non più ricostruito; la recinzione ora è costituita da un reticolato a griglia, continuamente deformato e violentato da chi vuole accedere al parco per vie traverse.
Al racconto andrebbe aggiunto un piccolo corollario. Le memorie storiche dei nostri vecchi raccontavano che ai tempi delle prime pestilenze anche in quella zona, erano stati attrezzati ricoveri e scavati “fupon”. Stralciato dal racconto sui “mort lungh” si riporta:
“addossata ad una quercia, era collocata una croce a indicare, il primitivo e più antico luogo di isolamento e sepoltura degli appestati. Questo segno fu poi collocato nella nicchia ricavata nella recinzione a costituire un minuscolo altarino: proprio nel luogo dove oggi, distrutto dal tempo e dall’incuria, si vedono immagini sacre appiccicate al tronco di un albero (reminiscenze celtiche del culto druidico della quercia rimaste nel DNA degli abitanti del luogo?). Questo luogo, finché la mura fu in piedi, nel gergo arcorese era identificato come segunda madonina, meta di solitarie peregrinazioni, di colloqui con gli antenati, di invocazioni, di pianti, di speranze nell’impossibile, accompagnati da semplici offerte floreali”.
da ciò si dedurrebbe che al di là della veridicità del “miracolo” una sorta di culto risalente nel tempo era già in atto e che l’invocazione, di cui al racconto, era una pratica consolidata, quindi l’apposizione dell’altarino non aveva fatto altro che ufficializzare un rito e una credenza antiche.
Un episodio flash, affiorato nel racconto dal baratro del tempo, dà una vaga idea del clima nel quale viveva il paese alla fine degli anni trenta, e riguarda un personaggio che aveva una certa influenza nel contesto sociopolitico arcorese. Sembrerebbe che costui praticasse una sorta di controllo sulle idee politiche che circolavano, controllo che sfociava poi nella convocazione del soggetto sotto inchiesta presso la “Casa del Fascio”.
Il Giovanni Cereda, padre di Salvatore, in una delle sue comparse in paese in compagnia del capo giardiniere Emilio … fu accostato dal ‘Nselmin – (questo era il nome del tizio di cui si parla, per ora senza cognome, in attesa che le tenebre della memoria si schiariscano, dipendente comunale, legato all’élite politico-amministrativa del paese; corpulento, dotato di una pancia notevole, non certo paragonabile a quella proverbiale del Bunfant, ma pur sempre ragguardevole, alla cui cura dedicava pranzi e festini) e dopo un breve chiacchiericcio i due furono invitati a presentarsi nella sede il giorno …tot, all’ora fissata. Una sorta di timor panico completato da profondi esami di coscienza cominciò a invadere il loro animo e i “…ma sal vurarà savè cusè…” ripetuti all’infinito, turbavano la loro pace. Arrivato il giorno, con sufficiente anticipo rispetto all’ora fissata per l’appuntamento, gli inquisiti, ai quali si era aggiunto anche Salvatore, abbastanza agitati e irrequieti si presentarono alla “Casa del Fascio”. (L’edificio, che ospita oggi alcune associazioni, si trova nel cortile delle ex “docce comunali” in Via 4 novembre; fu poi sostituito da una sede apposita costruita all’inizio della via Vittorio Veneto, quindi definitivamente trasferita in Borgo MIlano – Circulén). Il luogo aveva funzioni di osteria-bar-ritrovo e all’epoca era gestito dal “Bardel” (anche qui il nome vero si è perso nei meandri della memoria), il quale meravigliato della loro presenza, una volta noti i motivi, li invitò a sedere a un tavolo e servì loro qualcosa da bere. L’attesa si prolungava e cresceva la tensione, finalmente le trippe di ‘Nselmin comparvero nell’andito della porta: scuse, pacche sulle spalle e brindisi; compiacimento per aver trovato due persone per bene e tutto finì lì. Non vi furono né pressioni ne predicozzi né esortazioni.
8 settembre 1943 – Badoglio annuncia l’armistizio con gli angloamericani. L’esercito si sbanda e i tedeschi occupano militarmente la parte d’Italia ancora libera. Tra i soldati non più comandati si scatena un fuggi fuggi generale e chi può cerca di filarsela per tornare alla propria casa.
Nei giorni seguenti qualche centinaio di soldati in fuga, provenienti dal Parco di Monza, arrivano nei pressi dei boschi del Ravanèl, alcuni si presentano alla portineria chiedendo abiti civili, richiesta impossibile da soddisfare lì dove manca anche il necessario; altri scaricano nella Valle dei Morti armi, munizioni, alcune motocarrozzette (sidecar) e si disperdono. In breve tempo, delle armi e del materiale depositato, non rimane più niente. Salvatore afferma di aver visto molta gente prendere armi e tra questi anche alcuni arcoresi che sarebbero confluiti poi nelle bande partigiane. (la citazione di Giuseppe Centemero, Colombo Gabriele, ecc.… sarebbe da verificare; probabilmente è lì che i Mandelli raccolsero la loro modesta armeria, poi nascosta nel cortile; armeria che in parte ritornò alla luce al tempo della ristrutturazione della corte).
Nell’ottobre del ’43 arrivano in “Ca’ d’Ada” i tedeschi e il Ravanél, in conseguenza di quanto sopra riportato, subisce una perquisizione minuziosa alla ricerca di armi; ma quello che poteva essere portato via aveva già preso altre strade; il tutto si conclude causando un gran disordine senza altre conseguenze.
Nel ’44 i tedeschi, impiantati in “Ca’ d’Ada” reclutano personale ricuperato tra gli sbandati per scavare trincee e alzare sbarramenti nella zona attorno al Ravanél. Salvatore ne parla come di un lavoro fatto a regola d’arte.
Nel ’45 arrivano gli americani, altra perquisizione, naturalmente infruttuosa; quasi a scusarsi per il disturbo lasciano viveri e dolciumi.
La normale conduzione del parco e di tutto il patrimonio di terre e cascine avveniva, sotto la sorveglianza di fattore (Scotti), camparo (Campéé) e tirapiedi del padrone. A fare i lavori di manutenzione erano gli affittuari dei d’Adda, costretti dai loro contratti a dare giornate di disponibilità e viaggi di trasporto coi carri per compensi irrisori. Salvatore dice che vi erano, a turno, sempre, una ventina di uomini a raccogliere foglie, far pulizia ai viali, sfrondare i rami secchi, ripristinare ghiaietto e cunette in acciottolato, ripiantare quell’erba sempreverde a contorno dei viali nota col nome di convallaria, tenere rasati i prati, pulire il bosco dai rovi, ecc.
Per la sorveglianza interna ed esterna, oltre agli operai fissi, che si sentivano tanto immedesimati nel loro ruolo da comportarsi con gli altri quasi come alter ego dei padroni (proprio dei tirapiedi), c’era il camparo (Campéé). Costui era un personaggio abbastanza robusto, sempre vestito alla cacciatora e con cappello in testa; di carnagione scura, propria di chi è sempre all’aperto, e il viso ornato di un paio di baffetti, lo sguardo da inquisitore che cerca sempre qualcosa che non va. Aveva una gamba “stinca” (era detto “ul gamba tirada”), girava sempre in bicicletta con la doppietta a tracolla, pedalando con un solo piede, l’altro riposava sopra un marchingegno saldato al telaio, sempre inseguito da un botolo ringhioso come il suo padrone.
Racconta Salvatore che costui, tra le altre cose, si dedicava alla raccolta del veleno delle vipere; dopo averle individuate le bloccava a terra con un ramo forcuto, ne prendeva la testa fra il pollice e l’indice, poi premendola leggermente le faceva sputare il veleno in un bicchiere coperto di garza. Terminata la …mungitura, con attenzione le lasciava libere di andarsene.
Serpi nel parco ve ne erano moltissime, dalle bisce d’acqua ai succiacapre ai bianconi, ai mirò, era presente tutto l’assortimento serpentario brianzolo. Nel pomeriggio assolato le trovavi schierate sul colmo dei muri di cinta volti a sud ovest, e sul cupolino della cappella, esposte al sole a incutere timore e terrorizzare i passanti.
La grande mole di lavoro per tirapiedi e “campéé” veniva incrementando man mano si arrivava alla maturazione della frutta. Sul retro della scuderia, sui ronchi che risalivano la collina erano impiantate parecchie piante di ciliege nell’assortimento massimo delle qualità le quali avendo tempi diversi di maturazione consentivano di avere frutti freschi per quasi tutta la primavera. Poi prugne, mele, pere e nell’autunno castagne e caki. Nonostante l’assidua vigilanza la ragazzaglia aveva le sue astuzie per infiltrarsi a razziare i frutteti. A volte, con manovre diversive stornava l’attenzione dei sorveglianti costringendoli provocatoriamente all’inseguimento, altre volte intrufolandosi nel buio della sera, altre ancora sorvegliando i sorveglianti. Si può stare certi che una buona parte del raccolto veniva fatto dalle incursioni saccheggiatrici della marmaglia.
Tra la fine degli anni quaranta e gli anni cinquanta la grande proprietà terriera arcorese dei Borromeo-d’Adda cominciò ad essere spezzettata e liquidata. Le prime case ad invadere il coltivo, al bordo della strada per il “Sentiron”, (1948-1950) furono i due palazzi costruiti, come “case per dipendenti”, dalla Falck.
Chi aveva risparmi ebbe l’occasione di tramutare il sudore di generazioni in terreni in proprietà; chi molto, chi poco e chi niente.
Per i Cereda un modesto appezzamento consentì loro di intraprendere la costruzione di una casa, quasi solitaria negli spazi aperti dei terreni in corso di lottizzazione nell’attuale via Manzoni, inframmezzati ancora da qualche campo coltivato. La casa era finita verso la fine del ’53. Il programma era di traslocare nella primavera dell’anno dopo. La nuova famiglia che sarebbe entrata alla conduzione della portineria del Ravanèl, i De Giuseppe, era già in attesa, ospite di un parente cameriere alla Cazzola. Nella realtà era male alloggiata e faceva pressione su Giovanni perché anticipasse l’uscita. La richiesta fu accolta e nella prima decade di dicembre del 1953 si chiuse definitivamente il capitolo: la famiglia uscì dai boschi e ritornò in paese.
molto bello, uno legge e intanto scopre una marea di fatti ,persone ,storie che non ha mai conosciuto. Complimenti a chi ha saputo riportare alla luce un pezzo di storia del mio paese.