ARCORE “UL RAVANEL”

ARCORE “UL RAVANEL”

A firma di Tonino Sala, una nuova ed interessante ricerca, su Arcore. Questa volta l’attenzione è rivolta al parco comunale, posto a corona della Villa Borromeo D’Adda. Oltre ad una approfondita ricostruzione sull’evoluzione del Parco, una particolare attenzione alla costruzione, oggi sede della sezione arcorese dell’Associazione Nazionale Alpini, nota non a tutti, come il “Ravanel”. A cornice una colorita rievocazione di una “femme fatale, la Ravanela”, un racconto che attraverso fatti e personaggi reali, rimanda ad atmosfere passate, intrise di “miseria e nobiltà”, con un tocco di “pruriginoso”, che colora e non mancherà, verso chi ha vissuto, o avuto notizia di quei tempi, di riaccendere ricordi ancora vivi e siamo sicuri, incuriosirà e appassionerà chi per la prima volta conosce queste storie.

ARCORE “ul Ravanèl”

note e curiosità relative alla località in una breve storia del parco comunale

chalet

Premessa

Quella costruzione che per gli arcoresi DOC va sotto il nome di Ravanèl, oggi totalmente restaurata e destinata a sede della sezione arcorese dell’ANA (Associazione Nazionale Alpini), fu realizzata, sulla fine dell’800 nell’ambito dell’allargamento della proprietà e della ristrutturazione definitiva della villa d’Adda quando, acquisite alcune proprietà confinanti, il parco aumentò da 5 a 30 ettari.

Nella definitiva totale recinzione della proprietà, al tempo, fu incorporato un antico altarino a lato nord e costruita una vera e propria cappelletta a lato ovest, in prossimità del Ravanèl; il primo con una modesta nicchia contenente una statuetta della Vergine Maria, oggi sparita, crollata o demolita col muro che delimitava l’angolo NW della proprietà; la seconda, dedicata alla memoria di tutti i morti delle tante pestilenze (1348-1630), restaurata negli anni ottanta da un privato, con semi-cupola e una bella croce.

La formazione del Parco D’Adda e il Ravanèl

M. Rosa, autore di una succinta “storia” dei d’Adda e della loro villa in quel di Arcore, dice a questo proposito [L’epoca è quella del marchese Emanuele (1859-1911)] :

libro

“[…] Coi lavori di restauro della villa procedettero e proseguirono altre opere di abbellimento del giardino e di ampliamento del parco. Il marchese fece acquisto di nuovi appezzamenti di terreno attigui alla sua proprietà, in maggior parte, circa 300 pertiche, (pari a 196.355 m2, cioè 19,6 ettari) dei nobili fratelli Valerio; cosicché giardino e parco, dalla complessiva misura di circa 5 ettari, raggiunsero quella ben maggiore di 30 ettari. E tutta questa vasta estensione venne cintata, circondata da strade periferiche all’esterno, attraversata internamente da viali; e si aperse un’altra uscita con casina di portineria [appunto il Ravanèl] per maggiore comodità di comunicazione coi paesi vicini …”.

[Nota: attenzione! la faccenda è poco chiara: il Rosa scrive essere di 5 ettari la proprietà dopo la riunione, ma non tornano i conti in quanto, poco dopo dice che la superficie dell’annessione di quanto era dell’Abate, da sola, era di 145,21 pertiche pari a m2 95.042 circa cioè, 9,5 ettari, che dovevano sommarsi a quanto era originariamente del marchese Febo. Fatte le logiche differenze col totale di 30 ettari sembrerebbe che questa fosse meno di un ettaro cioè m2 8603, e la proprietà, dopo la riunione, poco più di 10 ettari.]

planimetria 1 bis planimetria 2

Le illustrazioni, stralciate dal libro del Rosa, rappresentano il territorio della villa e del parco: la prima riguarda la proprietà come risulta dopo la riunione delle due sezioni appartenute al marchese Febo e all’abate Ferdinando; la seconda dopo l’integrazione del territorio con gli acquisti dalla proprietà Valerio e l’integrazione dei terreni contenenti il laghetto superiore fatti dal marchese Emanuele.

Dimensioni: la lunghezza nord-sud, dall’apice della cinta sulla curva per “La Fornace” fino alla recinzione di Largo Vela, misura poco meno di un chilometro (935 m); la larghezza est-ovest, misurata da un antico accesso al colmo della Via privata dei Ronchetti (accesso chiuso con un muretto e delimitato da un vallo interno al tempo della diatriba fra il marchese Emanuele e il fattore-geometra Arienti che con la sua costruzione a cavallo dello scosceso dei Ronchi, in pratica ostruiva la vista sull’infinito che doveva godersi dall’abitazione del marchese), fino alla portineria ovest (ul Ravanèl), è poco più di mezzo chilometro (530 m).

Ricorriamo ancora al Rosa per dare uno sguardo alla storia della formazione del “Giardin

Nota: Giardìn (o Giardinasc, a motivo della dimensione), così era chiamato dagli arcoresi del tempo, il parco di Cà d’Ada, ora parco comunale: viali in ghiaietto con cunette laterali in arriccio di ciottoli (sassi borlandi), bordi decorati da quell’erba sempreverde ritenuta l’erba di sciuri; un bel ponticello in ceppo, ora crollato, gettato sopra uno dei rami del rio dei Morti; piantumazione curata; siepi e prati tenuti a regole d’arte; sottobosco pulito; due serre e fiori ovunque; inoltre uno stuolo di giardinieri, manovali e contadini, angariati da contratti per i quali erano tenuti a dare un certo numero di prestazioni gratuite a discrezione del fattore.

Certo che confrontato col presente più che un Giardìn oggi sembra una rüera. Rüera intesa sia come ammasso di rovi [rüé], sia come scarico di immondizie [reù]: viali dissestati, ramaglie abbandonate, tronchi in disfacimento, canneti abbattuti, sfalci lasciati a marcire, ecc., basta girare e osservare.

parco 1 parco 2

Ecco lo stralcio dal racconto:

“Abbiamo detto che sulla fine del ‘700 la proprietà d’Adda di Arcore era divisa tra i due cugini: l’abate Ferdinando e il marchese Febo. Questi possedeva la parte più vicina alla strada: un vasto palazzo col giardino retrostante steso in dolce pendio. Quivi, durante la stagione estiva e autunnale soleva recarsi con la numerosa famiglia a riposarsi dalle gravi cure cittadine e a respirare quell’aria balsamica e salubre”.

abate bis febo

Il palazzo e il giardino dell’abate stavano sopra l’amenissimo colle, che si chiamava e si chiama tutt’ora “La Montagnola”. Egli – col medesimo testamento del 21 aprile 1808, con cui disponeva della sua sostanza per la fondazione della già ricordata Causa Pia – lasciava al cugino Febo d’Adda (1772-1836) la facoltà, eseguibile entro un anno dalla sua morte, di comperare la detta “Montagnola” co’ suoi terreni, per quel prezzo che verrebbe determinato dal perito che fosse da lui eletto. Infatti, con istrumento del 23 giugno 1809, il marchese Febo acquistava la Montagnola col terreno attiguo, nella misura di pertiche milanesi 145,21 (circa 95.000 m2, quindi 9,5 ettari). Veniva così a riunire nelle sue mani le due distinte proprietà di Arcore, che divennero una sola. Erede di essa lasciò il figlio Giovanni (1808-1859 erede nel 1836), il secondogenito dei maschi sopravissutogli, chè ben sei de’ quindici suoi figli l’avevan preceduto nella tomba.

[…]Giovanni, incline per indole alla vita campestre, non tardò a vagheggiare il pensiero di dare nuova forma alla già deliziosa sua villeggiatura, e di formarsi una residenza degna del suo nome. Unito da calda amicizia con l’architetto Balzaretti […] gli comunicò il suo desiderio, i suoi progetti, e gliene affidò l’esecuzione, lasciandogli piena facoltà di fare e trasformare a suo talento senza nessuna restrizione.

Il Balzaretti incominciò ad occuparsi del giardino, anzi dei due giardini, dell’abate e del marchese Febo, ancora distinti e separati da siepe e da una specie di avvallamento. Egli con scavi e col trasporto di ben 160 mila m3 di terra, li riunì in uno solo; e con un lavoro di ben cinque anni (1840-45) […] formò un magnifico giardino […].

[nota e commento: dove fosse fisicamente questo avvallamento da colmare è un mistero non ancora risolto nonostante l’indagine sopra la mappa catastale del 1722 che, purtroppo, mancando di curve di livello non consente approfondimenti tali da risolvere il quesito. Nemmeno la planimetria datata 1808 dà maggiori indicazioni in quanto non risulta disegnato alcun avvallamento, tanto da ritenere che la data segnata sia errata. Se potessimo credere accettabili le note riferite alle dimensioni delle due proprietà si potrebbe ipotizzare la collocazione della villa dell’Abate al colmo di una scarpata degradante che arrivava fino a una ventina di metri dall’impianto del palazzo del marchese Febo e ivi fosse collocato l’intaglio che divideva le due proprietà. Quindi i 160.000 metri cubi di terreno servirono, probabilmente, a raccordare i 16 metri di dislivello dal colmo della Montagnola al piano costruendo il “dolce pendio” che conduce alla villa attuale.

 giovanni d'adda  emanuele d'adda

Erede delle sostanze (1859) fu il figlio Emanuele (1847-1911) […]. L’ingrandimento di terreno richiese a sua volta altri lavori di riordino, altre costruzioni. Anzitutto una nuova scuderia. L’antica veniva a trovarsi troppo vicina ai recenti locali d’abitazione; e d’altra parte, capace soltanto di dodici posteggi di cavalli, era diventata ormai insufficiente. Era l’epoca in cui il re Umberto e la regina Margherita trascorrevano volentieri diversi mesi all’anno nella superba villa di Monza; e d’autunno specialmente vi tenevano, una o due volte alla settimana, inviti e riunioni della principale nobiltà dei dintorni. Spesso, dopo tali convegni, il marchese d’Adda invitava parenti ed amici a pranzo nella sua non lontana villeggiatura di Arcore. Vi si recavano coi loro equipaggi, e occorreva quindi una scuderia più ampia. In un anno (1894-95) si demolì l’antica e se ne costruì una nuova capace di venti cavalli. (Nota: rammentiamo che il materiale della demolizione servì, parzialmente, per la costruzione della cascina San Giovanni, come risulta chiaramente dalla relazione Arienti datata 1911.) Si costruirono inoltre due serre, invece dell’unica preesistente. Fuori dalla cinta del parco v’era un grande serbatoio d’acqua, fatto scavare dal marchese Febo d’Adda in un anno di malattie infettive per fornire ghiaccio alla popolazione. Questo laghetto, fuori del recinto, incustodito, non mancava di procurare qualche inconveniente. Il marchese pensò, con un nuovo ingrandimento del parco, di incorporarlo in questo (1900), pur continuando a permetterne l’uso per i bisogni del paese.[…] Alla morte del marchese Emanuele (19 ottobre 1911) la proprietà d’Adda passò al conte Febo Borromeo, Senatore del Regno, già stretto da vincoli di parentela con la famiglia d’Adda […]».Questa è la conclusione: la proprietà, nel 1945 passò al figlio di Febo Borromeo, Emanuele, poi da questi, nel 1980, al Comune di Arcore.

Collocazione Geografica
posizione

Posizione del parco rispetto al territorio del paese

Fasi della costituzione

fasi formazione

Non è il caso di tracciare l’intera genealogia dei D’Adda. Per questa vi sono il testo ufficiale della “Storia di Arcore” ed esaurienti siti su internet, però è opportuno sapere che la presenza dei D’Adda sul suolo arcorese è antichissima, probabilmente risale alle prime congregazioni di Umiliati che si insediarono sul nostro territorio fra il 1200 e il 1300, coi quali intrattenevano rapporti di forniture e commercio.

In un decreto di esenzione dai carichi fiscali emesso da Francesco Sforza il 22 dicembre 1421 in quel di Lodi, quale compenso per l’aiuto nella conquista del ducato di Milano, tra gli altri beneficiati dall’esenzione, compare anche un Antonio D’Adda che riceve il beneficio per sé e per i suoi massari del territorio di Bernate.

Nello Stato d’Anime del 1588 una notevole parte del paese risulta di proprietà della vedova di Costanzo D’Adda mentre l’intero territorio di Bernate è proprietà di Teodoro D’Adda.

Le sezioni 1 e 2 costituivano un’unica proprietà in origine appartenuta a Pagano senior, divisa poi tra i figli Pagano Junior e Costanzo dai quali poi l’abate D’Adda e il marchese Febo.

L’inserimento del parco nel paesaggio

inserimento nel paesaggio

Le coste ovest dei terrazzamenti mindeliani (segnate in color viola) incise dal displuvio, fanno confluire le precipitazioni verso un punto di raccolta e scarico noto come Valle e Rio dei Morti. La relativamente profonda valle a lato nord-est del Ravanèl, naturale proseguimento di quella a nord, che fa da collettore all’incisione superiore, è stata canalizzata e chiusa da due riporti di terreno per consentire, a lato nord il proseguo della strada delle Spazzate, e poco più sotto il transito per la nuova portineria, appunto il Ravanèl.

Anche all’esterno della recinzione del parco, proprio in prossimità del rialzo sul quale sorge il fabbricato, esisteva un tratto della strada delle Spazzate con alla base un canale di sfogo, costruita con riporto di materiali, che aggirava la costa, e, in salita, conduceva all’ingresso. La strada non c’è più, è franata e non è più stata ricostruita: la mancanza di manutenzione e la spinta dell’acqua dei forti piovaschi ha aperto una breccia ricuperando il tracciato originario prima del riporto a copertura del tratto. Ora un piccolo sentiero seguendo la mura di cinta raggiunge il fondo dove un ponticello permette di passare il filo di roggia senza bagnarsi i piedi (naturalmente in regime di pioggia normale, perché i forti piovaschi arrivano a riempire tutte le vallette non essendo dimensionati gli scarichi), il sentiero prosegue poi per una ripida scaletta che sfocia sul piazzaletto antistante lo Chalet.

 anni 50 2  anni 50 1

Le due foto risalgono agli anni cinquanta. La prima: Il tavolo e le panchine, sotto l’ombra dei pini invogliava a una sosta per riprendere il fiato dopo la breve salita scambiando anche quattro chiacchiere con i residenti. La seconda, presa dal colmo della collina che domina la pianura, oggi invaso da una grande villa, mostra sulla destra la vecchia strada in salita verso il piano della portineria.

ul Ravanèl”  La collocazione rispetto al parco
aerofotogrammetria

L’immagine è stralciata dall’aerofotogrammetria del territorio
Arcorese ordinata dal Comune e realizzata nel 1993.

Le due foto, che seguono, riguardano lo scarico, con la griglia basculante, dell’incisione delle due vallette alle spalle del Ravanél. Tra l’una e l’altra vi è un intervallo di sei anni. Nella prima si vede chiaramente la canalizzazione che passa sotto il terreno a suo tempo riportato per colmare la valle e consentire l’accesso alla portineria ovest. La seconda mostra il passaggio d’acqua in regime di piccole piogge.

 griglia 2  griglia 1

L’acqua si è aperta un varco facendo franare la vecchia Strada delle Spazzate, ora, dai “Mort Lungh”, si arriva al Ravanèl per il sentiero costruito dagli Alpini.

 via spazzate  scala chalet

Tornando al “Ravanel”, il perché del nome ha una spiegazione semplice: a far da portinaio, ma era anche giardiniere, fu chiamato Costante Ravanelli, originario di Robbiate, che vi si installò con la sua famiglia, da qui l’origine del nome. Così almeno risulta dallo “Stato d’Anime del 1882-1897” nel quale si legge che le famiglie Ravanelli ad Arcore in quell’epoca erano due. Ad abitare la portineria era la famiglia di Costante, sposato con Virginia Valtolina, anch’essa di Robbiate e all’epoca avevano quattro figli.
La famiglia, poi, coinvolta nelle disavventure di una delle figlie, dovette lasciare la portineria, e il luogo fu affidato ad altri custodi-giardinieri: i Cereda. Più tardi, verso gli anni cinquanta, subentrò un’altra famiglia imparentata con uno dei camerieri della villa Cazzola, i De Giuseppe.

 salita ravanelLa salita al Ravanèl, dopo i “Mort Lungh”, come era negli anni cinquanta  salita ravanel oggie come appare oggi.

Quattro righe sul cognome Ravanelli, tratte dal “Dizionario storico ed etimologico” della Utet:

«Ravanèlli, Ravanello. Ha alla base un alterato di Rava, nel senso di ‘rapa’, con –ano e con –ello o è alterato di Ravano (v. Ràvani) con il suffisso –ello, da cui anche la voce del lessico ravanello, richiama tale fitonimo nelle varianti settentrionali ravanèl e ravanin ‘ravanello’ (ravanèl ‘ramolaccio’ nel dialetto trentino) come base per soprannomi attribuiti a persone che coltivavano o prediligevano tali ortaggi. Il cognome è documentato attraverso Ser Gio. Antonio Ravanello a Brugnera-Pn nel 1494 e un Paolo Ravanello bresciano nel 1497. L’odierno cognome Ravanelli si riscontra ad Albiano-Tn e Trento, a Milano e a Sulbiate-Mb, nel Bergamasco e a Bologna e provincia, per oltre 1500 presenze. Ravanello è veneto, a Venezia e nel Trevigiano.»
Qualche famiglia con questo cognome è ancora presente in paese, non sappiamo se discendente dagli originali provenienti da Robbiate.

La Ravanela

Segue ora un breve racconto su uno dei personaggi che caratterizzarono l’Arcore popolare fino agli anni settanta del secolo scorso.

Dal sepolcro dei ricordi affiora ancora la figura di quella vecchina che con ogni tempo, dall’alto della soffitta dove abitava in “Curt del Cirenea”, arrancando sulle stanche gambe e con la schiena curva, andava per la strada dei boschi, raccogliendo man mano sterpi e ramaglie nella giornaliera fascina, verso il “Ravanèl”: la casa che l’aveva vista giovane, piena di entusiasmo e di vita affrontare le vicende quotidiane dell’esistere.

La casa situata a lato NW della proprietà d’Adda, ora Parco comunale, era stata costruita dopo che il marchese Emanuele, concludendo l’ampliamento della proprietà, nell’ultima decade dell’’800, l’aveva provveduta di un’altra uscita con casina di portineria per maggiore comodità di comunicazione coi paesi vicini. Il Ravanelli, originario di Robbiate, fu chiamato ad abitarla, in qualità di portinaio e giardiniere, con l’intera famiglia.

Ogni giorno Virginia passava e guardava nostalgica la curiosa architettura, il tetto di lastre di ardesia, il grande camino che intravedeva dalla porta semiaperta, i vetri dell’abbaino offesi con la schermatura della carta bucherellata dei bachi, il tavolo e i sedili di pietra posti all’ombra degli alti pini sul margine dello scosceso e sentimenti di dolore ne velavano poi la stanca voce quando inginocchiata davanti al piccolo tabernacolo della cappellina, ricavata nello spessore del muro di recinzione, ne adornava di fiori campestri cercando il respiro della Vergine nella sua preghiera.

Le disavventure amorose di Emma avevano generato il licenziamento del padre, portinaio e giardiniere e l’allontanamento dell’intera famiglia.

Emma era di bell’aspetto già da bambina e la marchesa, per elevare almeno in parte il tono estetico della corte di cui si circondava, la invitava spesso a palazzo ritenendo che gioventù e bellezza potessero essere contagiose. Crescendo in età ebbe una disavventura che le causò una momentanea lussazione, peraltro perfettamente guarita, dalla quale, i medici che avevano in cura non so quale “contino” con un accidente simile, cercavano di trarre insegnamenti studiando de visu il corpo dell’Emma fatta camminare nuda sul prato (almeno così riferiva lei in uno dei suoi racconti).

La partecipazione alle “serate” aveva sicuramente svelato alla giovane l’esistenza di mondi molto diversi da quello al quale apparteneva e qualche approccio di “giovin signore” gli aveva fatto intravedere ambizioni di vita superiori.

Qui la faccenda diventa un po’ nebbiosa. Emma si fidanza con Bestetti poi un vuoto che il racconto non colma, al quale segue la rottura del fidanzamento, la caduta in disgrazia della giovane e l’allontanamento della famiglia dal servizio della Casa.

La bellezza prorompente della giovane probabilmente insidiata e allettata dalle lusinghe della gioventù che frequentava ne determina una scelta di vita da accompagnatrice di alto bordo: si raccontava dei suoi rientri da Milano con taxi quando ad Arcore si sapeva a malapena cosa fossero le automobili.

Poi il tempo passò, la maturità, il ritiro in Corte Vecchiatti, i primi sintomi della decadenza e la vecchiaia. La solitudine nell’inverno le diventava insopportabile: bussava alla porta delle case cercando compagnia e i lunghi racconti delle serate mondane dei ricevimenti della marchesa coloravano le noiose serate invernali delle famiglie del cortile. Il facile eloquio accendeva la fantasia di noi ragazzini su modi di vita che non si sarebbero mai immaginati. Tra le innumerevoli storie venivano alla luce nomi di nobili e dame citati con disinvoltura e mischiati con quelli di pseudo buffoni presi tra i rustici del paese introdotti a divertire la “corte”: l’avventura di “Lacio buito”, un ragazzino ritenuto un “semplice”, sorpreso con la bocca piena di torta e costretto a parlare in mezzo ai convitati, nell’italianizzazione del gergo dialettale, era uno degli esempi più volte citati.

Bionda, ritta, altera, drappeggiata in lunghi colorati scialli di lana, la mano sul fianco, senza pose forzate aveva il naturale incedere di una regina; l’occhio vagamente languido, ammiccante dal leggero strabismo, le labbra atteggiate al sorriso represso, la voce profonda con toni aspirati, il volto appena sfumato da un velo di cipria e un profumo intenso di donna che ne permeava l’intera figura. Di se stessa diceva di essere l’epigone delle grandi amanti ottocentesche.

Raccontava la Emma l’episodio di un giovane che abitava sul suo stesso pianerottolo col quale intratteneva un’amicizia che era scivolata pian piano in qualche cosa di più intimo (il tempo ha cancellato nella mia memoria l’identità di costui). Quando ne parlava il ricordo la esaltava leggermente e gli faceva brillare lo sguardo; il sugo del racconto si condensava poi in poche battute. Il giovane, a un certo punto, aveva lasciato l’appartamento ed era sparito del tutto dall’entourage della Emma. Nel proseguo del tempo, una sera, rientrando, sulle scale che portano al pianerottolo dell’abitazione, Emma incontra un frate che sta scendendo il quale, spiando di sottecchi, con la manica della tonaca cerca di nascondersi il viso; Emma ha un moto di trasalimento, cerca di ritirarsi contro il muro e lasciare il corrimano al frate ma inciampa nella sporgenza del gradino, il frate allunga il braccio e la sostiene, i visi sono quasi a contatto, si incontrano, Emma fissa negli occhi il frate e riconoscendolo lo chiama per nome: era il giovane coinquilino col quale aveva trascorso e condiviso una stagione della propria vita. Rimessa in equilibrio la donna il frate fuggì precipitosamente scendendo le scale a lunghi balzi.

Quando aveva qualche necessità di piccoli servizi che ricompensava sempre con modeste mance, si affacciava alla finestra delle scale, scrutava nel cortile e il suo magnetismo non tardava ad attirare lo sguardo di qualche ragazzo intento al gioco: un sorriso, un cenno, un silenzioso invito a salire. Consumava Chianti che mandava a comperare alla Fiaschetteria di Bestetti (Bestetti, in bicicletta, con un lungo borsone a tracolla, faceva la spola dalla bottega a una specie di deposito al quadrivio di via Abate D’Adda. All’ingresso del negozio una enorme botte faceva più da decorazione che da contenitore, deposti sul pavimento decine di fiaschi coperti da un modestissimo sigillo di carta rossa o verde. Bell’uomo, aspetto del “tombeur de femmes”, faceva consegne anche a domicilio, è difficile dire se al servizio consegne integrasse anche altro.)

I suoi trascorsi di fidanzata di Bestetti (era stato podestà ai tempi del Fascio e sindaco dopo la guerra) le vennero in aiuto quando in là con gli anni e con poche risorse finanziarie, nell’inverno andava negli uffici del Comune, si sedeva, e aspettava cosciente che qualcuno si sarebbe mosso per sentirla: “…qui fa caldo, a casa mia fa freddo…”. A breve termine arrivava in cortile il rifornimento del combustibile che, a spese della comunità, manovali del Comune recapitavano nel suo appartamento.